Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
La patente ducale del 15 Giugno 1638, custodita presso l’Archivio di Stato torinese, investe il Conte Amedeo di Castellamonte delle miniere d’oro, argento, rame, stagno, ferro, pietre preziose, “marchisette” ed ogni altro minerale presente nel feudo di “Bussolino”. Il Conte, architetto dei Savoia, adotterà molto spesso i marmi della Valsusa nei suoi cantieri.
Falcemagna è una borgata dell’Indritto di Bussoleno il cui nome è dovuto alla disposizione delle abitazioni a guisa di falce. Oggi è inserita nella zona SIC, Sito di Interesse Comunitario, in quanto oasi xerotermica, ossia caratterizzata da condizioni di siccità e di forte irraggiamento che permettono la crescita di una vegetazione assolutamente singolare a queste latitudini.
Una cava si trova presso le Rocce dei tre Bech, a 1.650 m, vicino alla sorgente del torrente. Nel Calendario Generale pè Reggii Stati del 1826 si legge: “Sulla sommità della montagna denominata Faucimagna si cava il marmo verde di Susa”.
È un’oficalcite di altissimo pregio, che ricorda il marmo dei monumenti classici: su fondo verde spiccano vene bianche, e la pietra è nota anche come Verde Antico o Verde Tessalico, e localmente Verde Fugera. La pietra è durissima e il filone è considerato inesauribile.
Reale chiesa di San Lorenzo a Torino (Franca Nemo).
In Valle è utilizzata soprattutto per acquasantiere e battisteri, ricavati da blocchi compatti: come il Battistero lucido della Cattedrale di Susa, eretto nel 1558.
Le cave piemontesi, tra il XVII e il XVIII secolo, godono di grande fortuna: lo scarso sviluppo delle vie di comunicazione rende difficile i trasporti e l’aumentato uso del marmo nell’edilizia sabauda ne incrementa la ricerca in regione.
Il Verde di Susa decora gli altari torinesi: quelli delle chiese della Santissima Trinità, Immacolata Concezione e San Filippo Neri. Gli scalpellini Francesco Pozzo e Giovanni Malciano, diretti da Guarino Guarini, lo impiegano tra il 1671 e il 1679 in San Lorenzo.
Il Castellamonte se ne serve in diversi pavimenti, alternandolo al Bianco di Foresto o di Chianocco, dell’Ospedale San Giovanni.
Filippo Juvarra nel 1716 lo sceglie per l'altare della cappella di Sant’Uberto e la pavimentazione della galleria di Diana, oggi restaurata con altri materiali, della Reggia di Venaria e nel 1717 per gli elementi ornamentali della Basilica di Superga.
Galleria di Diana e altare della chiesa di Sant’Uberto alla reggia di Venaria Reale.
La cava è “riscoperta” nel 1724 dal Signor Ferraris di Tremona (oggi quartiere di Mendrisio, in Canton Ticino): per raggiungerla vi fa costruire una strada. Il marmo appena estratto o parzialmente lavorato è calato, su un percorso accidentato e ripido, per quasi mille metri. S’impiegano pali, argani meccanici o tavole e slitte di legno: vietato danneggiarlo. Carlo Emanuele III di Savoia gli accorda una pensione annua.
Dal 1733 il marmo è impiegato dal Juvarra per abbellire la galleria Beaumont di Palazzo Reale.
Nella Nota delle Carriere e Petraje che si hanno né Stati di S.M., Nicolis di Robilant, scrive della cava e delle “diverse qualità” del “marmo verde serpentino”: “Nel 1748 fu scoperta una qualità che gareggia col verde antico con tracce bianche isolate, il che indusse il Re Carlo Emanuele a stabilire una sega” affidandola alla direzione del Barone de Vallerieux.
Il nobile progetta l’impianto della cava per poi dirigerla secondo il Regolamento dell’Intendente Generale delle Regie Fabbriche: due carte manoscritte a inchiostro e acquarelli sono pervenute fino a noi.
I "baracconi"
La prima, Plan en elevation des carrières du Ver Antique Marbre de Suze raffigura le zone di estrazione, i principali massi staccati, la strada carreggiabile, il mulino ad acqua che aziona la sega e i barracconi.
Una mappa, databile fra il 1764 e il 1797 (sopra al titolo), riporta l'indicazione della cava e dei "Baracconi per le Marmore" in località Fugera: due edifici in pietra, uno per alloggiare gli operai, l’altro adibito ad officina. Oggi uno è un rudere e l’altro un bivacco.
Il luogo è panoramico: l’occhio spazia dalla Sacra di San Michele al Parco dell’Orsiera-Rocciavrè, oltre il Colle delle Finestre. Da qui un breve ma esposto sentiero porta tutt’ora alla cava.
Il secondo schizzo del Barone, il Plan du moulin à sies, riproduce la sega impiantata sul rio della Colombera in borgata Grange. A sinistra l’impianto idraulico: il mulino che aziona la sega multipla e la derivazione del torrente con le relative chiuse per regolare l’afflusso dell’acqua. A destra la sua sezione, il prospetto per ridurre i blocchi in lastre e i dispositivi per la caduta a pioggia di acqua e sabbia.
Nel 1751 Vitaliano Donati, in viaggio sulle Alpi Occidentali per conto di Carlo Emanuele III, redige un'accurata analisi sulle potenzialità del Verde Susa e ne propone il commercio a Roma e Venezia: in Laguna si può arrivare sfruttando il viaggio di ritorno delle barche del sale.
Nel 1753 è impiegato nel rimodernamento di Palazzo Chiablese dall'Alfieri e nel 1763 l’architetto Filippo Castelli lo vuole per le dodici colonne della Cappella dell’Ospedale San Giovanni di Torino.
Nel 1766 il misuratore e architetto Giovanni Battista Ferroggio raggiunge Bussoleno per una ricognizione: servono lastre esagonali per la chiesa di Venaria Reale.
Interno chiesa dell’Annunziata, Venaria Reale
Un camino di Palazzo Chiablese
La cava è inattiva per una frana: si affida allora al cavatore Carlo Giudice che recupera un masso rovinato a valle.
Nella relazione dell’architetto si legge che i marmi presenti nei magazzini di Bussoleno, indicati per “fornelli e tavole”, non provengono dalla cava ma sono stati “trovati”. Cosa analoga rileveranno anche, nel 1835, Vincenzo Barelli, Capo-divisione dei boschi e delle miniere degli Stati Sardi, e, nel 1849, Goffredo Casalis nel suo Dizionario geografico, Storico, Statistico, Commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna.
Per continuare a sfruttare la cava si deve riparare la strada: l’onere della spesa è a carico di chi acquista il materiale. L’Ufficio Generale delle Fortificazioni decide le misure del marmo ancora prima dell’estrazione e dello sbozzo, e precisa anche la forma dei blocchi: “secondo il loro verso con le macchie per lungo e non per traverso o diagonale e perfettamente quadrati”.
L’impresario, già in cava, deve scartare i difettosi: quelli portati al Regio Magazzino di Bussoleno devono essere perfetti, pena il rifiuto. Qui si misurano e si stila una lettera d’accompagnamento: senza questa sarebbero confiscati alle porte di Torino. In città avviene poi una seconda misurazione.
Il Ferroggio segnala poi marmi della valle Della Fornace: un pezzo è già nel magazzino e un’altra cava è stata scoperta l’anno prima dal Giudice.
Nel 1789 la segheria è chiusa: la sega è già stata trasferita a Torino al Laboratorio delle pietre del Martinetto.
L’Osservazioni sulle cave de’ marmi del 1825 riporta l’elenco delle 26 presenti in Piemonte: fra esse quella di Bussoleno che con altre tre “da gran tempo” appartengono al “Regio Patrimonio” e sono sfruttate dall’Azienda delle Fabbriche per i Regi Palazzi e Giardini. Il Quadro statistico di tutte le sostanze minerali nella provincia di Susa, dello stesso anno, lo ribadisce e sostiene sia rimasta in attività fino al 1792. In seguito il marmo estratto è poco: nel 1820-21 a Torino è usato all’interno di Palazzo Reale.
Il Casalis nel Dizionario sollecita il governo ad acquistarla dal Demanio: nel 1833 la strada è in totale rovina e per il riassetto occorrono almeno 1.000 lire. Vi provvede, nel 1835, Re Carlo Alberto: vuole adornare Palazzo Reale con marmi locali. Pelagio Pelagi con esso ne rimoderna il Salone degli Svizzeri.
Cava della Fornace a Foresto (Claudio Rosa)
Nel 1845 il Regio Geometra ed Estimatore giurato, Giuseppe Roggeri, nel suo Manuale dell’Estimatore riporta una tabella sui prezzi unitari per materiale grezzo fornito a blocchi: il verde di Susa è quotato a 65 lire.
A gestire la cava fino al 1859 è Pietro Giani. Nel 1883 è data in concessione per 30 anni, a fronte di un canone annuo di 100 lire, alla società L. Mereu & C. di Luciano Mereu, che nello stesso anno la cede al Barone Massimo de Buday.
Fra il 1863-89 il marmo è impiegato nella pavimentazione della Mole Antonelliana e nel 1879 ad Asti. L'ultima attività estrattiva è del 1883.
In cava lavorano duramente tagliatori e fatturanti. I primi sono addetti alle mine: osservando la venatura della pietra capiscono come operare nel miglior modo.
Squadre di tre uomini bucano la roccia, per creare un fornello, inserendovi ad una profondità che va dai 4-5 metri fino a superare anche i 7-8, la barramina, una pesante asta d'acciaio con punta acuminata. Uno la sorregge e gli altri due alternativamente gli assestano decisi colpi di mazza: avanza circa 1 metro al giorno.
(Foto di Claudio Rosa)
Nel fornello inseriscono l’esplosivo: la quantità, da 1-2 Kg fino a 4, è stabilita in base alla sua profondità. Lo pressano, lo sigillano e lo innescano con una miccia.
La prima carica imprime l'orientamento del distacco: verso il basso. Le successive, con quantitativi di polvere sempre maggiori, portano al crearsi di una profonda crepa. Ora si prepara la “vera mina”, quella che permette il distacco dei massi da lavorare: la polvere usata può superare il quintale.
I fatturanti procedono poi alle trasformazioni in cordoli, colonne, capitelli, pilastri, soglie, davanzali e molte altre tipologie di manufatti.
Nel 1902 il Comune intenta una causa per insolvenza contro il Barone annullando il contratto d'affitto. Del periodo successivo non si sa più nulla: si avvia repentinamente all’abbandono.
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