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Nel corso dell’ Alto Medioevo questo pregevole ortaggio è una delle coltivazioni principali dell’Abbazia di Novalesa: quando nel 906 i monaci benedettini fuggono dalla valle di Susa per scampare all’attacco dei Saraceni anche la coltivazione della cipolla li accompagna.
I monaci si trasferirono prima a Torino e poi a Breme, piccolo centro della Lomellina tra Casale Monferrato e Pavia, presso quella che sarà poi l’Abbazia di San Pietro. Ciò fu possibile grazie alla protezione offerta loro dal Marchese Adalberto di Ivrea (padre del futuro re d’Italia Berengario II), il quale donò loro la chiesa di S. Andrea in Torino (oggi Santuario della Consolata) e le “curtes regie” di Breme: Santa Maria in Castrum e Santa Maria in Pollicino, oltre a numerosi territori sparsi per il Piemonte, la Liguria e la Lombardia occidentale; la donazione è confermata e ratificata, il 24 luglio 929, dal re Ugo nella sua sede di Pavia.
Sarà quella di Breme ad essere privilegiata per l’insediamento della comunità, che vi si colloca in relazione con un oppidum o insediamento fortificato preesistente.
Breme, che sorgeva su un’altura detta “Costa Rubea” alla confluenza tra Po e Sesia, era in una posizione ottimale per i monaci della Novalesa: il luogo, fertile e rigoglioso, era anche in una posizione strategicamente sicura e inoltre a breve distanza dalla sede imperiale di Pavia. Qui Donniverto, ultimo abate di Novalesa e primo di Breme, edificò un monastero che fu intitolato a S. Pietro, come quello da poco abbandonato.
Come riportato dal Chronicon novalicense (scritto a Breme da un monaco anonimo intorno alla metà dell’XI sec.), i monaci “videro che quel luogo era ubertoso, ameno e fruttifero”, e lo elessero a sede della Congregazione, ritenendolo “la migliore di tutte le città costruite nel Contado di Lomellina”.
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Da allora ben poco è cambiato nelle tecniche di coltivazione e le sementi sono ancora preparate scegliendo una per una le cipolle migliori da mandare in fioritura. I produttori che la coltivano sono una dozzina, ogni anno ne producono 400 quintali di cui circa il cinquanta per cento viene utilizzato in occasione dell’annuale Sagra della Cipolla Rossa.
Nel Giugno 2008 l’Amministrazione Comunale ha istituito l’ identificazione De.C.o.(denominazione comunale di origine) al fine di caratterizzare in modo inequivocabile “la Cipolla Rossa di Breme”.
Il lavoro richiesto per la coltivazione è complesso: i semi vengono posti a bagno, con luna calante, in sacchi di iuta; successivamente, appena germinati, vengono recuperati e seminati in vivaio.
Dopo un breve periodo le piantine vengono trapiantate in campo, nei pochi terreni verso la golena che da secoli accolgono questa coltura. Il tempo della raccolta giunge a partire da giugno e si protrae per circa due mesi. Il sapore della Cipolla di Breme, persistente ma pacato, assolutamente unico, è ben definito dall’affettuoso soprannome che i suoi estimatori le hanno dato: “La Dolcissima”.
Per questa sua caratteristica, oltre al tradizionale consumo, la cipolla di Breme da sempre si è prestata a interessanti sperimentazioni culinarie e accostamenti solo in apparenza arditi, ma molto apprezzati.
Il ritorno in Valle di Susa
Mille anni dopo, la Cipolla rossa di Breme compie il percorso a ritroso: protagonista è la comunità di Novalesa, dove si trova l’antica abbazia benedettina da cui, come sopra ricordato, all’inizio del X sec. i monaci fuggirono prima a Torino e poi a Breme, dove trasferirono la coltivazione dell’ortaggio.
La storia torna a unire due località distanti più di 150 chilometri: la piemontese Novalesa, in val Cenischia, fra Susa, il Moncenisio e il confine francese, e la lomellina Breme, capitale della cipolla rossa e sede dell’omonima sagra della prima metà di giugno.
Dopo un periodo di studio e di preparazione, nel 2021 a Novalesa, 14.000 piantine sono state distribuite a una trentina di persone, fra cui tre agricoltori di professione.
Campi di Cipolla di Breme in Valle di Susa.
Spiega Marcello Salvati, consigliere comunale con delega al progetto Cipolla rossa: “Stiamo gradualmente reintroducendo l’ortaggio coltivato mille anni fa dai benedettini sulle nostre montagne: negli anni scorsi l’allora sindaco Tullio Faletti e alcuni compaesani avevano raggiunto Breme per capire la situazione ed entrare in possesso del seme.”
Nel 2019 la cipolla è tornata a essere coltivata in alcuni orti e da alcune aziende agricole; sono stati inoltre coinvolti i vivai Beltrame di Moncalieri, che hanno coltivato le piantine per il successivo trapianto.
È comprensibile come la cipolla rossa coltivata in val Cenischia, a causa delle differenti caratteristiche pedoclimatiche, non conservi le caratteristiche di quelle bremese.
Infatti sono più grandi e non sono così dolci come quelle lomelline, ma l’importante è aver riportato a casa l’ortaggio coltivato dai benedettini della Novalesa e valorizzare in tal modo le antiche origini benedettine del borgo alpino.
Ma come l’hanno presa a Breme? “Siamo contenti – dice Francesco Berzero, Sindaco e presidente dell’Associazione produttori – di aver aiutato gli amici della Novalesa, che alcune volte avevamo ospitato in occasione della nostra sagra di giugno. Ricordo che un anno arrivò un pulmino con padre Daniele Mazzucco, già rettore dell’abbazia di Novalesa, con alcuni ragazzi: se ne andarono con diversi sacchi di cipolle rosse. In un’altra occasione io stesso spedii alcuni semi all’allora sindaco Faletti”.
Grazie alla passione e dedizione di Alberto Dulcis, giovane imprenditore agricolo di Almese (nella foto), la Cipolla rossa di Breme da quest’anno è coltivata anche su alcuni terreni alluvionali di Villar Dora.
I riscontri ottenuti sono stati a dir poco eccellenti, in quanto, grazie alle peculiarità dei terreni, sciolti e ben drenati, l’ortaggio esalta pienamente le caratteristiche organolettiche che lo hanno reso famoso e ricercato.
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