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Il XVIII secolo, che ha assistito al sorgere di numerose Accademie Agrarie, tra cui quella di Torino, nata nel 1785 per volere di Vittorio Amedeo II, ha visto anche un progressivo crescendo di interessi verso la disciplina vitivinicola, che verrà poi confermata nel secolo successivo.
Nel 1802, infatti, il sottoprefetto dell’Arrondissement di Susa, Antoine Jaquet, nella sua Relazione al generale Jourdan, consigliere di Stato e amministratore generale della Ventisettesima divisione militare, afferma che il maggior profitto della Valle è dato dal vino.
Sino alla fine del 1800, la vigna ricoprirà un ruolo di primaria importanza nelle colture agrarie valligiane. Anche Goffredo Casalis, storico e abate, nel suo Dizionario Geografico Storico-Statistico-Commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, pubblicato tra il 1833 e il ’56 descrive le colline di Susa e dei suoi dintorni, come anche i versanti più in alto della Valle, coltivati a vite.
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In pianura, in Bassa Valle, osserva che spesso è allevata a tetto piano o a tetto inclinato formando le caratteristiche toppie o toppioni, appoggiandosi direttamente su muri a secco, su impalcature in legno o, ancora, su caratteristici pilastrini clindro-conici in muratura e sormontati da una lastra circolare in pietra.
Tutto ciò, tuttavia, dovrà fare i conti con gli eventi della seconda metà del secolo, quando compariranno tre minacce parassitarie: l’Oidio, la Fillossera, osservata per la prima volta in Italia nel 1879 presso Lecco, e la Peronospora. L’Oidio arriverà dall’America ma dopo aver già danneggiato i vigneti francesi, provocando netti cali di produzione prima che i nostri montanari si decidano a superare la ritrosia verso l’uso dello zolfo.
I tre parassiti muteranno radicalmente la cura della vite: per superare questi terribili nemici ci si dovrà appoggiare alle scienze biologiche e chimiche, rinunciando all’applicazione delle norme colturali fino ad allora tramandate da padre in figlio. Da queste necessità nascerà la moderna viticoltura.
Assandro Maggiorino, nel 1884, nella sua Monografia agraria illustrata della Valle di Susa, con dati raccolti nel 1871, indica in 2.184,94 ettari la superficie vitata del circondario di Susa. Il territorio si compone di 57 comuni, suddivisi in un gran numero di frazioni e borgate: da Almese a Clavières, comprendendo anche Coazze, Giaveno, Reano, Trana e Valgioie.
L’intero territorio è diviso in tre zone agrarie: di pianura, di colle e di monte. La vite alligna nelle prime due. La coltura si estende in tutta la comba di Susa occupando il fondo, le pendici inferiori della catena orientale e soprattutto di quella occidentale esposta a sud.
Nell’ultimo tratto delle Alpi Cozie le pendici ripide e sassose sono disseminate di vigne fino ai 1.060 metri: il più piccolo angolo di roccia o piano, capace di ospitare anche una sola vite è sfruttato. Il contadino raccoglie e rompe pietre, costruisce muriccioli di sostegno, accumulandovi la terra per darle accoglienza.
La manutenzione è faticosissima: legname, terra, pietre e letame si possono trasportare solo a dorso d’uomo o di mulo, ed è frequente che una sola proprietà sia composta di diversi appezzamenti distanti fra loro. Il contadino trova però consolazione nell’abbondante, scelto e maturo raccolto che la vigna, se ben curata, convenientemente e ripetutamente solforata, gli concede grazie all’esposizione e alla natura rocciosa del terreno che riverbera i raggi solari.
I vignaioli per la potatura non riescono a sostituire il rozzo coltello ricurvo, il corbetto, già utilizzato dai padri e dai nonni, con la forbice a molla, sperimentata solo dai meno ostinati, anche se con essa il lavoro procederebbe con minore fatica e senza avvicinarsi troppo alla pianta scuotendola. I fautori dell’uso del falcetto opinano che si ottiene, con esso, un taglio obliquo che non trattiene l’acqua piovana.
Grazie al suo studio possiamo appurare che a fine 1.800 sono numerosissimi i vitigni che si coltivano in valle e questi variano da zona a zona, a seconda del terreno, del suo orientamento e dell’altitudine. Le più diffuse sono l’Avanà, dominante nelle zone di Chiomonte e Susa, Freisa nelle zone di Chiomonte, Becuèt, dominante nelle zone di Susa e Bussoleno, Carcairùn, bianco e nero, apprezzato per la rusticità, Fumengo, assai diffuso, Moscatello, predominante nella zona di Giaglione, Nebbiolo, soprattutto nelle zone di Susa e Bussoleno.
Grappoli di Becuèt (sopra al titolo vigne di Avanà).
A questi vanno aggiunti, a minore diffusione, Americana, Barbera, Bianca, Neiret o Brunetta, Grisa rousa, Grisa nera, Cipro, Dolcetto, Moscatellone, Moscato e Nerani, e quelli citati, in un altro studio del 1866: Ivernasso, Grisa rossa, iGrandurey, Russan, Ciamaseul, Bian ver e altri due evolutisi in loco: Vian ’d Maramut, rosso dell’omonima località delle Ramàts e il Gnì’è d’la Russìya, nero delle vigne alte sotto San Colombano.
Questo elevato numero di varietà, la maggior parte delle quali tutt’ora esistenti, rappresenta un’indubbia testimonianza dell’antichità di coltivazione e presuppone un’evoluzione plurimillenaria dei vigneti alpini.
L’indagine condotta nell’agosto del 1900 dal Professor Chiej Gamacchio, La coltivazione della vite nella Provincia di Torino, riporta un’altra ampia panoramica della viticoltura valsusina.
Lo studioso piemontese avverte anche dell’incombente minaccia della fillossera, già presente in 10 focolai in altrettanti comuni della Valle d’Aosta. Passano, infatti, pochi decenni e nel 1929 il flagello colpisce la Valle di Susa mutandone radicalmente il paesaggio: già nello stesso anno si registra una riduzione del 20% dei vigneti. In soli due anni vengono completamente annientate le viti chiomontine e via via tutte le altre.
Vigne a Chiomonte.
Molte famiglie si trovano di colpo senza la gradita bevanda, ma soprattutto sono private di una essenziale fonte di reddito: molto del vino prodotto in quegli anni è ancora venduto a un’affezionata clientela dell’Alta Dora e francese, specie fra gli abitanti di Modane.
È però dal 1930 al 1935 che il parassita decima nettamente le superfici vitate. Solo a partire dal 1940 sarà possibile provvedere al reimpianto: quelle in zone a scarsa vocazione verranno abbandonate. Passata la tempesta la viticoltura dunque rimane, ma radicalmente trasformata, specie nei vitigni impiegati, nelle zone di Chiomonte, Giaglione e Gravere in Alta Valle; a Mompantero, Meana, Mattie, Bussoleno, Bruzolo, San Didero e Condove in Media valle e in alcuni altri appezzamenti nella Bassa Valle, ma qui i terreni sono sempre più contesi dalle esigenze di espansione urbanistica e industriale.
Negli anni successivi è l’intera viticoltura valsusina a risentire delle trasformazioni economico-sociali: all’inizio degli anni Sessanta l’attività agricola viene progressivamente abbandonata a favore del lavoro in fabbrica.
Nonostante tutto la vite resiste, su circa 800 ettari localizzati nelle aree tradizionali, si può dire per consuetudine, come attività part-time: il vino è quasi esclusivamente destinato all’autoconsumo. Questo permette alla Valle di mantenere il primato europeo della maggiore altitudine a cui la vite si spinge sull’intero arco alpino: sotto San Colombano raggiunge quasi i 1.200 metri mentre a Deveys e Cels supera abbondantemente i 1.100 e con alcuni filari sparsi i 1.150.
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