Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Solo una donna poteva riuscirci. Sposarsi e dopo una settimana vedere il marito partire per la guerra e poi deportato in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre. Partire per cercarlo, trovarlo, sostenerlo, tornare in Italia con lui e con un figlio neonato.
Ho letto d’un fiato questa “avventura” in un volumetto edito dal GR.AN.GIA, benemerito Gruppo Anziani Giavenesi, nel 1995: "L’avventura di Francesca. Racconto vero d’amore e di prigionia a 50 anni dagli avvenimenti – Francesca Maritano", a cura di Candido Martinacci. Le immagini sono tratte da questo volume.
Una storia da “anello forte”, che sarebbe piaciuta a Nuto Revelli e che Francesca Maritano ha saputo raccontare, ben aiutata da Candido Martinacci, con una disinvoltura che rende “normale” un’impresa epica. Il volumetto, stampato in poche centinaia di copie, è pressoché introvabile, proverò a sintetizzare la storia lasciando il più possibile la parola a Francesca e al suo stile narrativo fluido e incisivo.
L’avventura di Francesca Maritano
Io ed Evasio Salio ci siamo sposati il 25 febbraio 1943 ai Maritani di Cumiana, dove abitavo con la famiglia, emigratavi molto tempo addietro da Valgioie. Io avevo 22 anni ed Evasio 35.
Francesca ed Evasio il giorno del matrimonio.
Ci sposa Don Michele Grosso nella Cappella della borgata dedicata alla Madonna degli Angeli. Rinfresco sull’aia di casa e viaggio di nozze sul Lago Maggiore. Al ritorno ci aspetta la cartolina di precetto per Evasio, che il 4 marzo parte per Alessandria.
L’8 settembre non torna a casa, dopo sette terribili mesi arriva la prima cartolina da un campo di concentramento in Germania. Mando del cibo che non gli arriverà mai.
Nell’estate del ’44 La Stampa dà notizia che le donne sposate possono raggiungere i mariti in Germania. Non immagino che questa proposta sia un inganno per avere nuove braccia da lavoro: senza pensarci due volte decido di andare a riprendere mio marito.
Agli Alti Comandi di Torino apprendo dove si trova. In attesa del lasciapassare devo sottopormi a una visita medica. Il medico cerca di convincermi a non andare, ma lo convinco a valutarmi in buona salute, come in effetti sono.
Parto il 16 novembre 1944 all’alba. Mio padre e Francesco, un partigiano, mi accompagnano a piedi a Giaveno, al trenino per Torino. A Milano in stazione finisco con altri 600 su una tradotta militare. Anch’io come tanti conosco i rumori della porta scorrevole che sbatte chiudendosi e del lucchetto che scatta e che di fatto ci sigilla fino all’arrivo a Innsbruck a mezzogiorno del 18 novembre.
Scopro che Evasio non è in un campo vicino, ma a 2000 chilometri di distanza, a Elbing, vicino a Danzica in Polonia. Chiedo di tornare in Italia e mi guardano come se fossi impazzita. Dovrò lavorare lì. Piango, prego, urlo, faccio scene isteriche, finisco in guardina e rifiuto il cibo.
Dopo tre giorni cedono, raggiungerò mio marito, ma dovrò fermarmi a lavorare là. Un prigioniero italiano mi accompagna e fa da interprete. Tra bombardamenti, strade interrotte, notti all’addiaccio arriviamo a Danzica a fine mese. Elbing è a 80 chilometri, ci arrivo in bus e poi a piedi al campo.
Mio marito è diventato un IMI (Internato Militare Italiano) e l’incontro con lui è allucinante. È un uomo distrutto, senza volontà, totalmente apatico, sembra un fantasma. Non riconosco l’uomo che ho sposato. Non è possibile che ci si possa ridurre così. Al vedermi non riesce a sorridere. Non si commuove. Le sue prime parole sono per chiedermi se mi ha dato di volta il cervello, per scendere qui, in questo inferno senza ritorno.
Non permetto al senso di sconfitta di affiorare. Di colpo assumo su di me le sue sofferenze, la sua debolezza mortale e con grande tenerezza, come quella di una mamma col suo bambino, tento di farlo sorridere.
Si trascina, ha una gamba in cancrena per una brutta bruciatura agli altiforni dove lavora. Ottengo una cameretta con due brande, siamo di nuovo marito e moglie. Dopo molte preghiere ottengo che mio marito sia esonerato dal lavoro e sia curato un po’. Al posto suo lavorerò io, sono giovane, forte, in perfetta forma. Il cambio dovrebbe convenire.
Francesca Maritano è nata il 17 agosto 1920 a Borgata Maritani di Cumiana.
Evasio Salio, classe 1907, tornò provatissimo dalla prigionia e morì nel 1966.
La vita scorre in una collana di tristissimi giorni. Chiudi gli occhi alla notte già sapendo che il domani non avrà aurora. Ma un mattino, ecco la grande, magnifica rivelazione: aspetto un figlio! È come se si fosse acceso il sole.
Non so come dirlo a Evasio. Mi decido, rivedo l’espressione del suo volto, è di sgomento, di paura, ma le parole che escono dalla sua bocca sono di felicità. Finge perché mi ama.
Scorrono giorni uguali. Freddo, tanto freddo. Il 24 gennaio 1945 veniamo incolonnati dai tedeschi, armati contro i Russi in arrivo e contro di noi, e iniziamo una ritirata a zig zag, giocando a nascondino coi russi.
La colonna si assottiglia, lasciando coi morti la traccia del suo passaggio. Dio mi ha dato una salute di ferro e l’ha data anche alla creatura che è in me. Abbiamo dormito nei cortili, ammucchiati per scaldarci. Abbiamo carpito ogni rimasuglio per sopravvivere.
Sfiniti, laceri, sporchi arriviamo a Danzica il 27 gennaio. Dormiamo in un teatro vuoto, addossati a una colonna, che ci salva. Un bombardamento scarica macerie su chi era in mezzo alla sala. Evasio cerca i suoi amici più cari, se n’è salvato solo uno, sarà il padrino di nostro figlio.
Per due mesi vaghiamo per la Polonia, i russi ci trovano nei bunker costieri per ripararci dalle bombe. Inizia un’altra odissea. Ad aprile arriviamo nel campo di raccolta di Rogòwko, presso Toruń. Qui Orestilla Toscani, un’italiana di Como, e il medico del campo si prendono cura di me.
Anche Evasio si riprende, io cucio indumenti, mi portano cibo razziato negli orti, siamo in estate ma di tornare in Italia non se ne parla. Vorrei che mio figlio nascesse in patria, ma nasce il 7 settembre nell’ospedale del campo.
La dottoressa è stata un angelo, non mi ha lasciato un attimo. Ora stringe al petto il figlioletto mio chiamandolo “Sergioski!”. È un po’ figlio suo. Per riconoscenza lo chiamerò Sergio. Aggiungerò Giuseppe, come voleva Evasio, in più Ettore, il nome di mio padre. Pesa quattro chili e duecento grammi. Io trentatré chili.
Alle quattro del pomeriggio mi cuciono. Una ventina di punti, a freddo. Esco il 19 settembre. Evasio e Orestilla sono in strada col calesse del campo. Qui siamo accolti da una festa, Sergio è come fosse il figlio di tutti, ci regalano una culla costruita con materiali di fortuna. È il figlio della speranza.
Il giorno dopo mio marito, con Orestilla e Giovanni Boscardini, il superstite del bombardamento di Danzica, si reca per il battesimo alla cappella di San Rocco, una chiesetta che ricorda quella dei Maritani. Io rimango al campo a fare frittelle, tante frittelle per tutti. Al mio paese non si usa che la madre accompagni il figlio al battesimo.
Il 21 settembre saliamo in tradotta per rientrare in Italia. Per procurare il latte per Sergio una volta Evasio e l’amico rischiano di perdere il treno. Al confine italiano ci spruzzano per la disinfestazione, la sera del 29 settembre arriviamo a Porta Nuova a Torino. Sergio ha 22 giorni.
Dove andremo a passare la notte? In corso Vittorio Emanuele, poco lontano, abita un fratello di Evasio. Armi e bagagli, pochi, la culla in spalla a Evasio, andiamo a cercarlo. Drin! Le facce dei miei cognati sono più che sbalordite. Non avevano notizie da tanto tempo. E non siamo due, ma tre, con culla appresso.
Finalmente in un letto! Come si apprezzano le cose comuni quando le perdi e le ritrovi! Il mattino dopo siamo in via Sacchi, sul trenino per Orbassano. Sull’autobus per Cumiana il bigliettaio non accetta la culla e nemmeno noi, perché non abbiamo i soldi dei biglietti. Discussione animata. Duemila chilometri, prigionia, le parole diventano grosse. Possibile che non capisca la situazione?
Intorno a noi la gente è solidale e inveisce contro il bigliettaio. Arriva il capostazione e subito ci concede di salire gratis, noi e la culla. Un’ora dopo, scesi a Cumiana, arriviamo a piedi ai Maritani, a casa dei miei genitori, senza poterli avvertire in anticipo.
Come un’apparizione d’oltre tomba ci presentiamo ai miei, increduli, sorpresi, emozionati. Gioia, felicità. Indescrivibile. A mio padre cedono le gambe e crolla a terra. Mia zia sviene. Siamo fantasmi?
L’assoluta mancanza di notizie per più di dieci mesi, unita a notizie indirette sui terribili campi di concentramento, sulla morte di tanti, sulle crudeltà, sui massacri, avevano fatto perdere la speranza sul nostro ritorno. Noi, poveri derelitti, non soltanto eravamo vivi, ma avevamo con noi una creatura nuova, il loro nipotino! Dio aveva compiuto il miracolo, era il 30 settembre del 1945, Sergio compiva 23 giorni.
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