Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
La coltivazione della vite in Piemonte e la conseguente produzione di vino hanno origini molto antiche.
E' quasi certo che furono i greci a portare la vite (e con essa il vino) nella nostra regione, di sicuro all'arrivo dei primi romani in Piemonte già si produceva vino, tanto che Plinio racconta di come venisse conservato in “gigantesche” botti di legno. Lo stesso termine “doja” che in dialetto indica l'orcio di terracotta destinato a contenere il vino, deriva dal latino “dolium” che a sua volta nasce da una parola celtica.
E furono proprio i Celti, insediati nei terreni assolati sia della bassa che dell'alta Val di Susa, ad iniziare la coltivazione della vite e la produzione del vino. Sempre in Val di Susa, già a partire dal II secolo a.C., i Romani costruirono diversi insediamenti e ville rurali nelle quali si coltivava sistematicamente la vite.
Si dovrà però aspettare fino al 793 d.C. per trovare comunque una citazione ufficiale, che troviamo nel “Testamento di Abbone”, fondatore dell'Abbazia di Novalesa, il quale lasciava in eredità diverse località con vigne annesse, molte delle quali possono identificarsi con Gravere, Chiomonte, Giaglione e con parte del circondario di Susa. Risale invece solo della fine del secolo scorso il riconoscimento della DOC ai vini della Valsusa.
Tornando al resto del Piemonte, la più antica testimonianza scritta della produzione del vino in Piemonte si trova nella “Tavola di Polcevera”, incisa nel 117 a.C., la quale riporta una sentenza del Senato romano per arbitrare una controversia tra i “Genuates” e i “Langates” (una comunità di Viturii dai quali discendono probabilmente gli attuali abitanti della Langa). Nella sentenza i Langates sono condannati a pagare ogni anno un canone oppure la ventesima parte del frumento e la sesta parte del vino che producevano.
Un'altra testimonianza della coltivazione della vite ci arriva dalla storia della battaglia tra i Goti di Alarico e le truppe dell'Impero Romano guidate da Stilicone. La battaglia fu combattuta tra Pollenzo e Santa Vittoria d'Alba e si narra come i Goti, vedendo da lontano i pali delle vigne che emergevano dalle nebbie del mattino, li avessero scambiati per le lance dell'esercito romano schierato in formazione da combattimento e, intimoriti da questa apparente inferiorità numerica, fossero scappati rinunciando a combattere.
In epoca più recente, a Torino, nel 1402 il predicatore domenicano Vincenzo Ferreri, fu ricompensato dal Comune con una “carrata di vino”, e un dono analogo fu inviato nella seconda metà del 1500 dal duca Emanuele Filiberto a Enrico II, re di Francia, il quale lo apprezzò al punto da sollecitarne più volte altri invii.
Tutte queste testimonianze ci servono per capire come la produzioni vinicola piemontese fosse apprezzata già in passato, tanto che nel 1658 fu codificata a Torino la figura dell'”assaggiatore di vini”. Accanto a questo, dal Cinquecento fino alla fine dell'Ottocento, fa la sua comparsa il brentatore (Brindor) il quale era l'unico autorizzato a calcolare la quantità di vino venduto o acquistato e a poterlo trasportare dal mercato alla casa dell'acquirente. Questo mestiere era riconosciuto da patenti ducali, si tramandava di padre in figlio ed era prerogativa degli abitanti delle valli di Lanzo e del Sesia.
Anche in Val di Susa, come abbiamo detto, la produzione di vino vanta origini storiche: un rotolo di pergamena riguardante i resoconti della Castellania di Rivoli, oggi conservato nell’archivio storico di Torino, dà conto della produzione vinicola (di “nebbiolo”) del 1266.
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Nel 1371 Amedeo VI di Savoia esporta nel Delfinato un vino denominato “vino di Susa” e già a partire dal 1500 si comincia a denominare i vari tipi di vitigni.
L' Avanà, uno dei più importanti dell'epoca, viene coltivato nella zona di Susa e dell'alta valle, mentre nei terrazzamenti di Giaglione domina il Moscatello. Altri vitigni molto diffusi, perchè in grado di sopportare bene la rusticità e il freddo delle coltivazioni montane, sono il Fumengo e il Carcarione.
A fine '800 un vino considerato dagli esperti uno dei rossi di qualità superiore è il Cimon, molto diffuso nella zona di Chiomonte. La produzione di vino in Val di Susa era abbondante, nelle zone citate, ma anche a Cels, alle Ramats, a Mompantero, a Bruzolo, Mocchie, Caprie, Gravere, Meana…
Nella sola Mompantero a metà del '700 una giornata di vigneto (circa 3800 mq) produceva 17 brente e 35 pinte di vino (cioè 885,7 litri); di poco inferiore la resa della vigna a Chiomonte con 11 brente e 35 pinte a giornata (cioè 590 litri a giornata).
Per avere un termine di paragone la rendita media della zona di Asti, nello stesso periodo, era di 6 brinte e 27 pinte per giornata, vale a dire “appena” 332,6 litri per giornata.
Lâs tòrte d'èrbo
Ovviamente tutta quest'uva, prima di diventare vino andava vendemmiata, ecco che allora all'inizio dell'autunno anche nelle nostre valli si consumava il rito della vendemmia.
Le giornate dedicate alla vendemmia avevano un sapore di festa. Al contrario della trebbiatura, lavoro faticoso e pericoloso, riservato quasi esclusivamente agli uomini, nella raccolta dell'uva venivano coinvolti tutti i membri della famiglia; donne e uomini si dividevano il lavoro tra la forza di spostare le ceste e la delicatezza della cernita e si consumavano merende frugali che non dovevano rubare troppo spazio al lavoro. Molto diffusa e apprezzata era la sòma d'aj, antenata, o forse coeva parente, della bruschetta, vale a dire una fetta di pane strofinata di aglio e poi cosparsa di olio e sale.
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Nella zona tra Giaglione e Chiomonte in occasione della vendemmia si preparava “lâs tòrte d'èrbo”, una semplice torta salata di verdura preparata con l'impasto del pane e farcita con grive, eipinase, shaous, biërave, tartifle, bazilic, përsemmou, bourëssche, alh, eipise, vale a dire cipolle, spinaci, cavoli, barbabietole, patate (da quando se ne diffuse la coltura), basilico, prezzemolo, borragine, aglio e spezie.
Questi gli ingredienti per la ricetta:
Per l'impasto:
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300 g di farina di frumento (o se preferite metà di frumento e metà di segale)
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180 g di acqua
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½ cubetto di lievito di birra
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sale
Per il ripieno:
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1 cipolla
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1 gambo di sedano
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1 carota
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un po' di prezzemolo
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300 g di spinaci
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200 g di cavolo
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2 patate di media grandezza
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erbe aromatiche a piacere (aglio, basilico, timo, maggiorana)
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olio extravergine d'oliva
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sale
Procedete preparando l'impasto come per fare il pane, riponetelo in una ciotola coperta con una pellicola e lasciatelo lievitare in un luogo non troppo freddo.
Nel frattempo tritate finemente il sedano, la carota e la cipolla e fatele soffriggere in una padella con un filo d'olio. Unite anche gli spinaci ben lavati e il cavolo tagliato a listarelle sottili. Regolate di sale e lasciate stufare tutte le verdure, quindi aromatizzate con il prezzemolo tritato e gli altri odori che avete scelto.
Legate il ripieno aggiungendo le patate precedentemente bollite e schiacciate con la forchetta, quindi lasciatelo raffreddare.
Dividete l'impasto in due parti e stendeteli in due dischi uguali. Su uno dei due ponete il ripieno di verdure e coprite con il secondo disco, sigillando bene i bordi. Spennellate la superficie con un filo d'olio e cuocete in forno a 200° per circa 30 minuti.
La giornata dedicata alla raccolta dell'uva si chiudeva sempre con grandi merende sinoire sull'aia, canti e balli, quasi pregustando l'allegria che il prodotto delle fatiche (cioè il vino) avrebbe portato di lì a poco sulle tavole dei contadini e non solo.
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