Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
La Val Sangone raccontata ai ragazzi... dalla bisnonna Livia Picco.
Il lavoro stagionale – primavera: concimare e piantar patate
Il lavoro quotidiano in casa e nella stalla non sempre era considerato lavoro. Il lavoro vero, che fa sudare e affatica, era quello dei campi, dei boschi e delle fabbriche. Nei campi variava secondo le stagioni.
Lu iàm, la sàpa e lu garbìn
I lavori più importanti erano rastrellare e concimare i prati, zappare e concimare gli orti e i campi, soprattutto seminare le patate. Tutto questo senza l’aiuto di un aratro e meno che mai di una macchina.
Le patate erano importantissime. Esse infatti, insieme alle castagne, sono state il sostentamento di generazioni e generazioni di montanari e non solo. Prima di seminare le preziose patate, bisognava preparare il campo ripido, riportando in cima, con la gerla, la terra accumulata in fondo a causa del disgelo, degli acquazzoni, e della stessa forza di gravità. Ed era necessario andare su e giù infinite volte al giorno.
Anche i bambini davano una mano con una piccola gerla (“lu garbinòt”) quando mancavano gli uomini (per malattia, servizio militare, morte, emigrazione, ecc…). Sparsa la terra in modo uniforme, bisognava zappare, concimare e tracciare i solchi paralleli.
Zappare era una faticaccia. La terra è bassa e incredibilmente dura da frantumare con la zappa, colpo dopo colpo. Dopo un po’, la schiena e le braccia mandano segnali di dolore e le mani che stringono il manico della zappa protestano per il bruciore delle vesciche e dei calli.
Raccolta delle patate (“trìfule“) in montagna. Costantino Picco lo fa con la zappa bidente, il “biciàr“, classico attrezzo per quell’operazione.
Per concimare si usava il letame che però non nasceva nel campo, ma lontano nella stalla. Al principio esso è una massa informe, incoerente di “bùʃe”, paglia, foglie secche bagnate dall’urina delle bestie: un pasticcio puzzolente. Come diventerà concime? Come farà il suo viaggio dalla stalla al campo? Quanto tempo ci metterà?
Ci metterà qualche mese. Nella stalla lo caricano con il tridente sulla carriola (o sulla “sivìri”, una rudimentale barella), lo ammucchiano nei pressi di casa e lo lasciano lì a fermentare, tanto che il letamaio (“lu iamèi”) è perfino caldo. Per affrettarne la maturazione ogni tanto lo girano.
In autunno e in inverno, tra un lavoro e l’altro, i contadini trasferiscono il letame con la gerla o, dove possono, con la slitta, in cima ai prati e ai campi da concimare. Lo riammucchiano, lo ricoprono di terra, di frasche perché continui a ‘maturare’ nei mesi seguenti.
A primavera il letamaio sarà una massa compatta, omogenea, da grattare con un rastrello di ferro per avere il concime soffice e leggero, che verrà sparso in modo uniforme sul terreno con il tridente.
Un’immagine di cinquant’anni fa, a Piano Stefano (“Pianastèiva“) si sparge a mano il letame (“iàm”) nei prati ripidi, sullo sfondo il vallone dell’Indiritto, con la chiesa di San Giacomo al Marone, la valle del Sangonetto che risale a Pian Gorai e al Col del Vento ancora innevato. (Fotografia di Bruno Gallardi).
Il letame fresco pesa come la terra nel “garbìń” e lascia addosso a chi lo maneggia un inconfondibile odore di stalla, sgradito ai giovanotti e alle signorinelle che alla domenica andavano in chiesa e a ballare. Avevano un bel lavarsi con le saponette profumate, strofinarsi con la salvia, la lavanda o il rosmarino! L’odore resisteva persino a qualche goccia di profumo, comperato di nascosto al mercato o regalato da qualche emigrato in Francia, e spuntava sotto i pizzi della camicetta bianca della festa…
Trifule e fil d’èrba
Le patate (“trìfule” in coazzese) non si seminano, si piantano nella terra. Non tutte intere, per non sprecarle: si tagliano a pezzi avendo cura che ognuno abbia il suo occhietto germogliante, se ne riempie una cesta col manico, “la curbéla”, e si vanno a collocare nei solchi, con il germoglio rivolto verso l’alto, e poi le si ricopre di terra.
Il contadino torna poi al lavoro in estate per “rincalzare” le piantine nate nel frattempo e così conservare l’umido della terra, e dopo a “scalzarle” per assicurare alle piantine l’ossigeno. L’intervento va fatto al tempo giusto, a colpetti precisi di zappa, per evitare di farle marcire o seccare.
Le patate hanno molti nemici: le piogge troppo violente, la siccità prolungata, il vento ‘marino’ che fa afflosciare gli steli e annerire le foglie, certi insetti che succhiano la linfa.
A volte il contadino non resisteva alla tentazione di vedere cosa c’era sotto la crosta dei solchi. Piano piano tirava su una piantina e guardava le palline bianchicce, grosse come mirtilli, ciliegie o noci e dal loro numero cercava di farsi un’idea del raccolto. Quelle palline erano le patatine neonate, ossia i tuberi attaccati alle radici.
I campi pianeggianti nei dintorni di Giaveno erano più facili da coltivare e la raccolta delle patate avveniva in grande stile. Ma si dice che le patate di montagna sono migliori, e sicuramente chi le ha prodotte con fatica le gusta di più.
La verità sul raccolto la sapeva solo quando, seccata la piantina fuori terra, con la zappa bidente (“biciàr”) sconvolgeva i solchi, tirando fuori i tuberi (...).
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Un lavoro leggero era la pulizia dei prati. Con il rastrello si toglievano i legnetti, i sassi, le porcherie trasportate dal vento o dall’acqua del disgelo. Nei prati pettinati a dovere, spuntavano fili d’erba sottili sottili, primule e margheritine coraggiose, tutti affamati di concime, per trasformare il prato in un tappeto di velluto punteggiato di corolle. Con il bel tempo spuntavano anche le erbacce. Allora il contadino afferrava un coltello e una zappetta, stroncava con rabbia i rovi, le erbacce e i cespuglietti nemici del prato.
Le persone che lavoravano curve, a stento si accorgevano dei miracoli della natura: la luce diventava più forte e allungava le giornate, il sole tornava a scaldare, gli alberi neri mettevano fuori gemme e foglioline tenere che tremavano al venticello.
A dire la verità i giorni primaverili non erano tutti così. Poteva cadere mezzo metro di neve a Pasqua o nevicare sulle foglie d’aprile. Spesso cadeva la pioggia per giorni e giorni o la nebbia fitta ricacciava la gente, vestita di lana, nelle stalle; ma alla fine il sole caldo vinceva le nuvole e allora il mondo pareva tutto trasformato: l’erba appariva più verde e allungata, le foglioline più grandi e più fitte. La stagione del freddo era terminata.
Nei giorni bui a volte si vedeva nei campi una figurina nera con l’ombrello o un sacco di iuta in testa, la zappa in mano. Era un montanaro che sorvegliava i canaletti, i muri di sostegno, i terreni fangosi. Cessate le piogge i campi erano tutto un via vai di gente dal mattino alla sera.
In collaborazione con Guido Ostorero, Laboratorio Alte Valli propone alcuni estratti di La Val Sangone raccontata ai ragazzi... dalla bisnonna Livia Picco, importante testimonianza sulla vita e sul lavoro delle nostre montagne: li trovate RAGGRUPPATI IN QUESTO LINK.
Per saperne di più vi rimandiamo al sito ScuolaGuido, che ripropone l’intera pubblicazione capitolo dopo capitolo, proprio come succedeva un tempo per i romanzi d’appendice.
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