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Il 24 maggio 1286 in borgata Villa di Giaveno, nei prati verso il Sangone, si riunisce il primo “Parlamento” del Piemonte, antesignano degli Stati Generali e dei Senati dei secoli successivi. Amedeo di Savoia deve legittimare l’arbitrato della Regina Vedova d'Inghilterra Alienor e del Re Edoardo I che nel 1284 lo ha riconosciuto Duca di Savoia.
Vi convengono 12 delegati dell'alta nobiltà piemontese, 13 Castellani, gli Abati di San Michele, San Giusto e Novalesa e una ventina di rappresentanti dei comuni del Piemonte. È la prima volta in cui sono tutti convocati.
L'arco in borgata Villa.
Il risultato finale di quell’assemblea consultiva, presieduta dal notaio Bricco Castellano di Avigliana, è scontato: Amedeo è riconosciuto Conte di Savoia con il nome di Amedeo V.
Intorno al 1290, in prossimità di questo luogo, Martino Borello agiato possidente della borgata, dà inizio alla costruzione di una casaforte oggi nota come Torre o Arco delle Streghe.
È appoggiato da Ugoneto Bertrandi, esponente di una delle famiglie feudali più potenti della Valle Susa e Signore di Cumiana. La scelta del luogo non è casuale: qui transitano merci e persone dirette, attraverso il valico della Colletta, ai feudi proprio del Signore della Val Chisola.
L’edificio deve il suo nome attuale ad una domestica del Borello vissuta a fine 1200 e accusata di stregoneria: Giovanna detta la “Clerionessa”, fattucchiera sospesa tra storia e leggenda, la cui vicenda ricalca le tipiche vicissitudini delle masche.
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Giovanna è guardata con un certo sospetto. La vox populi l’addita come donna avvezza alle antiche arti della magia, particolarmente abile nella preparazione dei “filtri d’amore” e grazie alle sue conoscenze delle erbe in grado di garantire, ai più anziani e macilenti, di ritrovare un po’ delle passate esuberanze giovanili.
È abituata a convivere con il sospetto che la circonda, ben sapendo di essere temuta ma anche evocata e in qualche modo rispettata quando qualcuno necessita di un intervento magico-terapeutico o in segreto magari le chiede fatture contro il malocchio o di leggergli il futuro.
È semplicemente una di quelle donne che, in quel povero mondo contadino, si muovono al limite fra magia e cura: capaci di adoperarsi come levatrici ma anche “aggiustaossa” o di effettuare pratiche di “segnatura”.
Il rito della “segnatura” consiste di due parti: una gestuale, rappresentata da segni della croce e apposizione delle mani per praticare un massaggio al “paziente" e una verbale, costituita dal parlare sottovoce, sussurrare una preghiera antica e uno scongiuro. In genere la guaritrice inizia col passarsi dell’olio nelle mani e si fa il segno della croce chiedendo perdono a Dio per quello che sta per compiere. Traccia poi sul corpo dell’ammalato piccoli movimenti aprendo e chiudendo le dita tra l’indice e il pollice: il disegno definitivo è sempre la croce.
La “segnatura” più richiesta è quella “dei vermi” sui bambini.
Le varianti della leggenda: un patto con il diavolo...
Esistono molte varianti della leggenda, basate sulle diverse proprietà dei filtri magici da lei prodotti: elisir di giovinezza, filtri d’amore e quant’altro.
Si racconta che, nell’intento di mettere a punto una pozione di perpetua gioventù, fa bere i suoi intrugli agli sfortunati che le capitano sottomano: uno di questi malcapitati muore dopo atroci spasimi e la donna è rinchiusa nelle prigioni del castello e condannata al “fuoco purificatore”, al rogo.
La sfortunata cavia una volta risulta essere un anziano giavenese e un’altra un viaggiatore che si è spontaneamente affidato a lei.
In carcere Giovanna rifiuta il cibo e si nutre esclusivamente di alcune erbe che si è portata da casa.
Al mattino del quindicesimo giorno la cella è ritrovata inaspettatamente vuota: non vi sono tracce di effrazione, ma solo le ceneri di alcune erbe secche bruciate.
La tradizione popolare evoca patti con il diavolo, e la notte seguente c’è chi è pronto a giurare che dal porticato della torre di Villa si sprigioni una luce fortissima, accompagnata da un serie di lamenti che si ripetono quindicinalmente a ricordare il tempo di permanenza in arresto. Altri durante i pleniluni sentono echeggiare il pianto lamentoso della Masca.
...un filtro d’amore non riuscito...
In un’altra variante, un giovane giavenese si rivolge alla Clerionessa per ottenere un filtro d'amore: deve conquistare la più bella ragazza del paese.
Il martedì grasso lo mescola con il vino e lo offre alla giovane: lei lancia un grido e scivola a terra perdendo i sensi. Pochi minuti dopo muore ed il ragazzo, sconvolto, confessa spontaneamente il suo gesto.
In un’altra versione della stessa leggenda è un giovanotto, un certo Morello, a morire dopo aver bevuto il filtro. L'epilogo però è lo stesso: una gran folla si dirige alla torre per uccidere Giovanna ma alcune guardie la salvano dal linciaggio perché sia processata.
La condanna è esemplare: sia murata viva nella torre in cui è sempre vissuta e per nutrirla gli si passi il cibo da un buco.
La donna dopo poco tempo inizia a rifiutare i pasti e uno dei carcerieri, non vedendola più ritirare le vivande, si persuade che sia deceduta.
Si abbatte il muro ma la stanza è vuota: la Clerionessa si è trasformata in un fantasma che, dalla notte successiva fino ai nostri giorni, spaventerà con rumori molesti, lamenti ed ululati gli incauti che passeranno sotto la sua vecchia dimora.
Altri racconti popolari riferiscono che sotto l’arco della casaforte, nelle notti di luna piena, si vedano penzolare i corpi delle Masche che qui sono state impiccate dagli Inquisitori.
Quali siano i fatti che hanno portato alla condanna per stregoneria di Giovanna la Clerionessa, è certo che questa sia realmente avvenuta nel 1298.
Gaudenzio Claretta nella sua Storia diplomatica dell’antica Abbazia di S. Michele della Chiusa, pubblicata a Torino nel 1870 riporta infatti la “ratifica fatta dal Consiglio di Carlo III Duca di Savoia della sentenza arbitramentale pronunziata nel 1298 sulle vertenze fra Riccardo Abate clusino e Melchioto degli Albezi, gastaldo di Giaveno, in ragione dell'esercizio della giurisdizione di un allodio da questo tenuto in Giaveno nella circostanza che dovevasi giudicare Giovanna Clerionessa accusata di aver propinato veleno...”
Nel documento la si accusa di “aver preparato veleno somministratosi ad un individuo per mezzo di altra femmina”.
In quei tempi molte donne sono brutalmente torturate e uccise: basta un pettegolezzo, un rancore personale o l’ignoranza generale perché delle povere sventurate siano denunciate agli Inquisitori.
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Giovanna è una delle tante vittime del meccanismo persecutorio messo in atto da una società che cerca capri espiatori a cui attribuire le proprie paure ed incertezze.
Altri fatti di pratiche più o meno occulte vengono alla luce negli atti dei processi tenuti a Giaveno dall'inquisitore Alberto de Castellario nel 1335 e ritrovati nell'Archivio Generale dell'Ordine Domenicano di Roma.
(Foto di Claudio Rosa)