Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
"Buono come il pane” si diceva, e si dice ancora oggi, di una persona gentile e disponibile. Di tutti gli alimenti il pane rappresenta sicuramente uno dei più antichi e simbolici che l'uomo abbia “inventato”.
I primi panificatori della storia furono senz'altro gli egizi, che lo utilizzarono non solo come alimento, ma come vera e propria moneta; il salario dei contadini ad esempio era costituito da tre pani e due brocche di birra.
La leggenda vuole che una ragazza del popolo si fosse dimenticata di mettere il pane in forno, e che questo fosse rimasto in cucina per un paio di giorni, fermentando e gonfiandosi; quando la ragazza se ne accorse non ebbe il coraggio di gettarlo e lo infornò ugualmente. Dopo la cottura si accorse che era diventato soffice all'interno e croccante in superficie, e trovandolo delizioso lo volle far assaggiare al faraone il quale ne fu talmente conquistato che volle sposare la ragazza.
Al di là della favola, quello che è vero è che gli egizi scoprirono che bastava conservare un pezzetto di pasta già lievitata e aggiungerla a quella fresca per farla fermentare a sua volta, creando così il metodo di panificazione con la pasta di riporto.
In tempi più recenti, dopo l'anno mille, da un'economia silvo-pastorale, dove la carne era piuttosto abbondante, si passò ad un'alimentazione più cerealicola, e l'aumentare della popolazione rese necessaria l'espansione dell'agricoltura e la trasformazione di molti boschi in campi.
In montagna il frumento era poco diffuso, cresceva solamente sui versanti esposti al sole, altrove era più diffusa la segale, molto più rustica e che cresce fino ad un'altitudine di circa 2000 metri. In queste località quindi il pane, a base di segale e orzo, era scuro e pesante, la lievitazione risultava incompleta e, dato che la legna era preziosa, spesso le pagnotte erano poco cotte per cui il pane risultava indigesto e poco conservabile.
Nelle annate più ricche si utilizzava il barbarià, farina mista di grano e segale, ma nei periodi di magra tutto poteva entrare nella miscela per fare il pane: grano saraceno, miglio, farina di granoturco, ma non mancavano pagnotte a base di farina di fave, avena, panico, patate o addirittura ghiande.
In Friuli, per tutto il seicento, venne utilizzato il sorgo rosso o saggina, un prodotto considerato non commestibile, quindi escluso dalle imposte, e che dava un pane durissimo, privo di nutrimento e dal cattivo sapore. Per sfuggire alla fame però si tentava di tutto.
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Il pane bianco o scuro distingueva la tavola ricca da quella popolare. Il pane bianco, di solo frumento, almeno fino all'inizio del Novecento era per la mensa delle classi più agiate o riservato ai giorni di festa, ai malati o alle puerpere. I cosidetti panéti erano offerti alle neomamme dalle madrine, e consumati irrorati con vino e zucchero. In Trentino a chi andava in bottega a comprare pane bianco si domandava “chi gàs po' de maladi n casa?” (avete un malato in casa?).
Il pane non veniva preparato ogni giorno; si panificava ad intervalli periodici, ogni quindici giorni, ma nelle zone più isolate ed impervie anche una sola volta all'anno, a partire dal 1° novembre. Il forno era comune: in questi casi restava acceso anche per più di un mese ed ogni famiglia lo utilizzava secondo il turno che gli veniva assegnato.
Ogni famiglia doveva fornire la legna necessaria per la cottura del proprio pane, e chi cuoceva per primo doveva portarne di più perchè il forno, non ancora perfettamente caldo, richiedeva una quantità di legna maggiore per la cottura. Nessuno si augurava di essere estratto per primo, anche perchè, dato il forno più freddo, si otteneva un pane di qualità inferiore.
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Il giorno della panificazione era una festa per tutta la famiglia, specialmente per i bambini, che aspettavano con ansia il pane fresco, a volte delle pagnottine create apposta per loro nelle quali venivano aggiunte una mela o una pera, per i più fortunati anche un po' di zucchero.
L'antico forno di Oulme (Salbertrand).
Altre volte al pane venivano aggiunte castagne o noci. Si trattava di preparazioni ricche, riservate ad occasioni come battesimi o matrimoni, tanto che nei proverbi piemontesi è rimasto il detto “Pan e nos, mangè da spos” (pane e noci, cibo da sposi), che fa riferimento all'usanza di regalare pane e noci a chi non era invitato al banchetto nuziale.
La preparazione del pane era una delle rare occasioni in cui anche gli uomini partecipavano alla manipolazione del cibo. L'impasto veniva fatto di notte, o al mattino molto presto, in un locale caldo per favorire la lievitazione.
Le pagnotte erano sempre piuttosto grandi, poiché dovevano resistere ai lunghi mesi invernali senza ammuffire. Per questo erano conservate in luoghi freschi e areati, su appositi supporti di legno o su graticci appesi al soffitto, anche per difenderle dall'attacco dei topi.
I panificatori del territorio esprimono tutta l’abilità tramandata da generazioni, fornendo sempre un prodotto di qualità riconoscibile dal profumo e dalla fraganza, grazie all’oculata scelta di ingredienti tipici ed alla attenta lavorazione, che sempre di più utilizza la lievitazione naturale.
Le forme più tradizionali come le biove oppure il miccone, di forma allungata e rotonda dalla mollica chiara e dal colore oro, si uniscono a quelle realizzate con farine biologiche, farine integrali di grano, segale ed orzo.
A testimoniare il legame con questo prodotto ben due appuntamenti fieristici: le “Feste del Pane” di Chianocco e di Giaveno, la prima e la seconda domenica di settembre.
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