Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Si potrebbe pensare che tutti i Musei etnografici siano simili: attrezzi di un tempo, trasmissione della memoria, culto di ciò che non esiste più. Ma, parafrasando Tolstoj, ogni Ecomuseo è un’impresa felice a modo suo, e presenta particolarità del luogo in cui nasce. Che è il motivo per cui viene fondato.
Il Museo di Rodoretto, frazione di Prali in Val Germanasca, contiene alcune chicche che meritano di essere raccontate. Soprattutto se si ha la fortuna di sentirle spiegare da una narratrice d’eccezione, presente in alcuni fine settimana come guida volontaria: Valeria Tron. Cresciuta in mezzo a queste case abbarbicate, attorniata da “Danda” e “Barba” ovvero zie e zii, che in patois è in realtà il modo di chiamare tutti gli adulti, Valeria è un’apprezzata cantautrice, illustratrice e artigiana del legno, ma soprattutto è salita agli onori della cronaca perché il suo libro d’esordio, “L’equilibrio delle lucciole” era tra i dodici candidati al Premio Strega 2023. Ed è ambientato proprio qui: il paese che lei racconta è immaginario, ma ci sono evidenti influenze di Rodoretto così come di Massello, nella valle di fianco.
Ecco subito le particolarità, che distinguono gli attrezzi custoditi in questo gioiellino, un tempo la scuola del paese. Innanzitutto, le pentole di talco: quel minerale così amato e odiato in questa valle in cui si trovano le miniere che hanno dato lavoro a tante persone, ma le hanno anche abbruttite per la fatica e la silicosi.
Il talco ha la particolarità di indurirsi a contatto con il fuoco, quindi ad ogni cottura nel camino le pentole diventavano più resistenti. Insomma, pentole antiaderenti, che “non vanno mai alla fine”, per cucinare i Tortel, le frittelle. In patois, “la pèlo dî tortèl”. Di talco anche il ferro di stiro!
Le pentole di talco.
Il corno di ciliegio.
C’è poi un corno in legno di ciliegio, per richiamare gli animali al pascolo o per farsi sentire dagli altri pastori, che assomiglia a un didgeridoo australiano.
E ancora, rastrelli speciali con i rebbi mobili, per poter operare sui pendii senza temere di spaccare le punte a ogni sasso incontrato. In pratica il legno si adatta alle asperità del terreno, e i denti non si spezzano.
Uno speciale attrezzo per frantumare il pane secco (nella foto sopra al titolo), base di tante ricette in montagna. Il pane non poteva mancare nei mobili di montagna, assieme al sale, allo zucchero ed al sapone, proveniente dalla Francia in cui molti valligiani erano emigrati: non dimenticavano di portarlo nelle loro visite.
Il Museo, nel suo nucleo originario, nasce nel 1973, a seguito di una mostra temporanea organizzata dalla Maestra Elena Breuza Viglielmo. Tutta la popolazione contribuì a raccogliere gli oggetti esposti oggi nei locali della scuola, che sono anche la casa in cui il padre di Valeria nacque e, ancora troppo giovane, morì. “Ogni oggetto è stato selezionato e donato dalle famiglie, quindi dietro ogni singolo pezzo c’è una storia. Perché, come scritto sul forno, quel che dici passa, quel che fai resta”.
Il maestro Enzo Tron riuscì a trasformare l’esposizione in un Museo permanente, che ora è aperto da giugno a settembre (negli altri mesi su prenotazione per i gruppi) e si compone di diversi locali. “Quando ero piccola mi imbucavo nelle visite guidate da Barbu Enzo, per capire il Museo”, racconta ancora Valeria Tron.
C’è la meizoun, un locale unico che fungeva da cucina, dispensa e sala da pranzo; c’è la riproduzione di una camera da letto con bellissimi costumi di montagna, tra cui le preziose cuffie delle donne; c’è la parte sotterranea che era adibita stalla e un angolo allestito come una “scuoletta Beckwith”, esperienze formative tipiche delle valli valdesi realizzate nelle borgate prive di scuole e troppo lontane dai paesi più grandi.
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La stalla, che poteva anche essere condivisa, con il calore sviluppato dagli animali era il punto più caldo della casa, e per questo vi trovavano luogo le Vià, le veglie di un tempo in cui ciascuno raccontava storie vere e leggende, e anche i malati.
In Val Germanasca si era soliti allevare per mangiarne la carne polli, conigli e anche maiali, ma guai a toccare le mucche perché il loro latte era fondamentale per la produzione dei formaggi.
Dato che il paese è in forte pendenza le cantine sono una specie di mondo sotterraneo, con una temperatura perfetta. Richiamano anch’esse la miniera, come pure l’utilizzo della calce, che lì veniva estratta e utilizzata per imbiancare le stalle e per disinfettare. La calce era usata anche per conservare le uova, mentre la verdura più coltivata era il cavolo, perché può resistere sotto la neve e se rimane sotto la gelata è più buono.
I locali accessori, quelli che permettevano di conservare il cibo o il fienile, erano quasi più importanti di quelli abitabili, a cui erano concessi spazi minori.
Nell’allestimento, molto curato, con oggetti riprodotti dalla mamma e dalle “Danda” di Valeria, si è voluto suggerire che le stanze fossero state lasciate pochi minuti prima. La tavola è apparecchiata, le pentole sono sul fuoco, il letto sembra appena rifatto: per questo il museo si chiama "La Meizoun de notri donn", la casa dei nostri nonni.
La frazione è molto graziosa, con le case addossate e ripidi sentieri tra l’una e l’altra. Pare di vedere i personaggi de “L’equilibrio delle lucciole” a ogni angolo, districarsi tra l’antica osteria, il tempio valdese e la chiesa cattolica, l’antico forno, i piccoli angoli in cui ritrovarsi a parlare o a eseguire lavori.
Fino alla guerra qui vivevano circa 400 persone, oggi si contano sulle dita di una mano. “Nessuno è mai morto di fame – racconta Valeria Tron – C’è una specie di linea retta della povertà: se una persona aveva poco grano, poteva ricevere dagli altri il necessario, ricambiando poi ad esempio con l’aiuto durante la mietitura, o con altro. C’era una bella cultura della condivisione, un mutuo aiuto che ha salvato molte persone”.
Un ecomuseo è anche il simbolo di un’economia circolare di cui ora si sente tanto parlare, e invece tempo fa era praticata senza averne nemmeno coscienza: “la lana oggi va smaltita come rifiuto speciale, pagando; io da piccola ho imparato a realizzare il feltro, non si buttava via niente”.
I racconti proseguono tra tunnel scavati nella montagna da Massello fino a Rodoretto per arrivare più in fretta alla miniera, dove “un minatore guadagnava quanto serviva a comprare 50 kg cipolle”.
L’importanza della cultura in queste valli con le scuolette Beckwith: “La cultura è riscatto dalle ingiustizie. A fine Ottocento, mentre la maggior parte della popolazione italiana era analfabeta, qui si parlavano e si insegnavano quattro lingue: italiano, francese (lingua delle scritture valdesi), il latino e ovviamente il patois”, continua Valeria. Le valli valdesi, in quei tempi, esprimevano in percentuale moltissimi laureati in più rispetto ad altre zone; un esempio per tutti è Lidia Poët, la prima donna avvocato in Italia.
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