Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Livia Picco l’ho purtroppo conosciuta tardi, ma con un’altra preside prestigiosa, Maria Laura Tizzani, ho collaborato nel trasformare il suo dattiloscritto nel libro che racchiude il suo testamento culturale, La Val Sangone raccontata ai ragazzi… dalla bisnonna.
Maestra di affabulazione, in questo libro Livia racconta ai giovani, il suo pubblico ideale, la sua vita, le sue esperienze, le sue conoscenze. Nei suoi racconti le esperienze personali non sono mai fini a se stesse ma occasione per delineare i loro contesti culturali e storici: il mondo contadino in cui è nata, il fenomeno dell’emigrazione, la scuola del ventennio, la trasformazione industriale del dopoguerra, i viaggi e le nuove esperienze.
Se nella prima parte del libro Livia traccia un panorama storico ambientale di ampio respiro temporale, nella seconda parte si concentra sull’avvenimento più sconvolgente che ha vissuto, la seconda guerra mondiale, vissuta da adolescente tra Coazze e Torino.
Il titolo del romanzo che le ha dedicato, Gente sul filo del rasoio, esprime benissimo lo stato d’animo suo, dei suoi famigliari e della gente in generale, senza diritti, senza certezze, senza tutela. Ne La Val Sangone raccontata ai ragazzi, la guerra viene raccontata in una prospettiva diversa, non romanzata ma con abile intreccio dell’esperienza personale con le vicende contestuali, arrivando ad allargare lo sguardo ad un lucido quadro complessivo.
Se la cultura e la storia locale godessero di maggior attenzione e maggior tempo nei programmi scolastici, il lavoro di Livia Picco sarebbe da adottare come libro di testo. Il volume, uscito nella collana degliAhcartari(quaderni) dell’Ecomuseo dell’Alta Val Sangonenel 2015 per i tipi dell’Echos Edizioni, ha comunque incontrato il favore del pubblico, ed è oggi esaurito e introvabile.
Guido Ostorero
In collaborazione con Guido Ostorero, Laboratorio Alte Valli vi proporrà alcuni estratti di questa importante testimonianza di vita (nel nostro sito li trovate raggruppati qui), a partire da questa bella descrizione del lavoro e dei trasporti in montagna.
Per saperne di più vi rimandiamo al sito ScuolaGuido, che sta pubblicando l’intera pubblicazione capitolo dopo capitolo, proprio come succedeva un tempo per i romanzi d’appendice.
La popolazione e l’ambiente
Gli abitanti della Valsangone, come tutti i contadini montanari, erano indaffarati nei boschi, nei prati, nelle stalle, nei campetti magri sulla montagna e in quelli un po’ più fertili del fondovalle.
Più in alto erano i campi, più dura era la fatica.
Le difficoltà del lavoro aumentavano infatti passando dalla conca di Giaveno alle borgate via via più alte, dove la gente viveva disagi che neppure immaginiamo. Mancava tutto: l’acqua in casa, la luce elettrica, il telefono, la radio, la lavatrice, la falciatrice, la motosega e via dicendo. E si camminava sui sentieri.
Tutti i lavori erano fatti a forza di braccia, spalle, gambe, aiutati da strumenti semplici come le zappe, le falci, i rastrelli e le gerle, dette “garbìń”, simbolo della fatica e della pazienza dei montanari.
Il terreno coltivato era arido, ripido, conteso ai rovi e agli arbusti. Eppure i fianchi della montagna erano tutti coltivati; i rettangoli verdi e gialli in tante sfumature erano uno spettacolo! L’erba dei prati era tagliata al tempo giusto; il grano, la segale e le patate erano seminate e raccolte con grande attenzione.
La lotta per i raccolti cominciava in primavera e, in autunno, molto prima delle semine. La prima fatica era riportare in cima al campo la terra che le piogge e il disgelo avevano trascinato in fondo. Allora il contadino riempiva la gerla e poi con fatica riportava in alto la terra scivolata a valle. Infinite volte. E la gerla pesava e scorticava le spalle.
E costruiva muretti a secco (senza calce o cemento) con sassi e pietre, portati magari da lontano e poi incastrati uno sull’altro. Oggi, dopo decenni di abbandono, sono ancora visibili, a volte semisepolti sotto la vegetazione disordinata.
La gerla, il “garbìń”, simbolo della fatica montanara. In questa foto del 1982 Elio Ruffino ha fotografato il proprio padre di ritorno dal mercato il giorno del suo 73° compleanno, ancora con il garbìn sulle spalle.
Altro grande nemico dei raccolti era la siccità che rendeva gialli e stopposi i prati e i campi… Come portare un filo d’acqua sui versanti che bruciavano al sole d’estate? I montanari prendevano la zappa, tracciavano dei rigagnoli non più grandi di un solco (le “bilìre”) per catturare in alto l’acqua di un torrentello, di una sorgente o di un acquitrino e convogliarla verso i prati e gli orti.
Questa preziosa acqua andava controllata. Quando pioveva troppo, le piccole bealere venivano chiuse agli sbocchi nei prati con delle pietre piatte per rimandare l’acqua nel torrente.
Quando invece si scatenava un temporale, si vedeva il contadino, con un sacco sulla testa, sfidare i fulmini e armeggiare con la zappa nei punti da cui poteva staccarsi una frana.
La manutenzione preservava la montagna. Se una pietra si staccava da un muretto, se una zolla veniva via, se una talpa aveva fatto un buco che inghiottiva il filo d’acqua della “bilìri”, se questa si intasava e invadeva il sentiero, egli era lì, con i suoi semplici attrezzi, a rimediare.
A Coazze e a Giaveno si facevano le cose in grande. Le bealere erano canali in cui l’acqua affluiva abbondante, veloce e veniva portata dal Sangone o dal Sangonetto a grande distanza. E c’erano regole precise circa i tempi e l’uso dell’acqua. C’erano, inoltre, i canali che fornivano l’acqua alle industrie.
La Valsangone così si divideva in due parti: quella al di sotto della bealera, considerata ricca e quella, assetata e povera, al di sopra.
Nonostante il sistema ingegnoso dei canaletti, d’estate rimanevano ampie zone di montagna senz’acqua per le persone, le bestie, i campi. La gente era costretta ad attingere l’acqua da bere a sorgenti lontane, a lavare i panni in un torrente scomodo.
Descrizioni e immagini tratte dal libro "Coazze… ognuno a suo modo" di Guido Ostorero, Edizioni Edinfolio, 1980.
La siccità diventava una vera calamità. Il raccolto del fieno per l’inverno era poca cosa, mancava l’erba per le mucche che mangiavano avidamente le foglie degli alberi, ad esempio quelle dei frassini e delle querce.
Le stesse penurie nelle estati troppo piovose: l’erba marciva nei prati; la segale e il grano marcivano nei campi. In entrambi i casi qualche contadino doveva vendere i capi di bestiame che erano indispensabili per vivere. Altri affidavano una mucca o due “in pensione” a un pastore che aveva una baita o un alpeggio, benedetto da una grossa sorgente o da un rio che non si inaridiva. Si diceva “duné a l’erba”. D’inverno si portava una mucca a un contadino del fondovalle fornito di fieno. Si diceva: “dunè a l’invèrn”.
Le entrate del contadino costretto a dare “in pensione” le mucche diminuivano ancora e, con i bilanci ridotti all’osso, era difficile tirare avanti.
I trasporti
Come per il lavoro, i trasporti funzionavano prevalentemente a forza di braccia, spalle e testa, intesa non solo come cervello ma come scatola cranica, vera base d’appoggio. Infatti si portavano sulla testa i carichi di fieno, le lenzuolate di erba (“fiurrà”), le fascine (“feisinè”). Sulle spalle i grossi pezzi di legno, le scale a pioli, i sacchi di cereali o di farina bianca e gialla (granoturco detto méliga). Sulle spalle e sulla schiena quasi tutto, mediante la gerla (“lu garbìń”), sintesi di ogni sudore e pena. Il montanaro non poteva farne a meno.
Quando un montanaro acquistava un sacco di farina da un quintale (prima e subito dopo la guerra) ingaggiava un carrettiere che glielo trasportava fin dove arrivava la strada, e da qui l’interessato se lo caricava sulle spalle. Piano piano, curvo sotto il peso, saliva sul sentiero ripido. Ogni tanto riprendeva fiato. Appoggiava il sacco su una pietra piatta o un muretto (“l’arpò∫a”, la riposa), si dissetava a una sorgente o al torrente, si bagnava la faccia sudata.
Pochissimi potevano permettersi un mulo o un asino per il trasporto di materiali, perché tenevano il posto di una mucca e non offriva alcuna rendita.
Armando Allais i trasporti li faceva di mestiere (foto fornita da Floria Allais).
Per i trasporti pesanti la protagonista era la slitta, usata in discesa, soprattutto d’inverno, con la neve. I borghigiani, che fienavano l’erba dei prati intorno alle baite alte, aspettavano la neve per far scendere i ‘trapun’ di fieno fino alle borgate. Altrettanto facevano i boscaioli con la legna. Se le piante però si trovavano in un valloncello, era massacrante far rotolare all’insù i tronchi fino alla mulattiera a forza di braccia e pali, senza la gru.
La discesa con la slitta qualcuno può pensarla poco faticosa. E invece…
Legata la legna sulla slitta, con una corda che la fissava saldamente sui “bënch” utilizzando due bastoni detti “turtùr”, il conducente prendeva la corda attaccata alla slitta (“la tirëtta”), se la passava sulla spalla e cominciava a tirare. La slitta si muoveva un poco. Egli tirava un po’ di più, ma subito doveva puntare i piedi e frenare per non essere travolto dal carico pesante. Poi ricominciava a tirare.
Se la discesa era ripida doveva bilanciare attentamente la frenata. Se doveva attraversare un tratto pianeggiante doveva tirare a tutta forza col fiatone. Le curve del sentiero erano sempre un’incognita: non erano ammessi errori di traiettoria, se no si finiva nel burrone.
I piedi del conducente potevano scivolare sulle croste di ghiaccio, sulla neve o sul terreno argilloso e allora la slitta, incontrollata, gli piombava addosso come un carro armato. Il conducente, inoltre, non poteva fermarsi quando si sentiva stanco, ma solo nei punti pianeggianti, e spesso doveva percorrere chilometri.
Arrivato a destinazione doveva scaricare la legna e disporla nella catasta (“të∫èi”) in modo ordinato o portare i fasci di fieno nel fienile, “sü lu tëppu”. E la legna e il fieno pesavano: il più delle volte doveva fare più di un giro e allora, sistemato il carico, si rimetteva la slitta vuota sulle spalle e tornava ad inerpicarsi sulla montagna per ricominciare da capo. Alla sera sentiva dolore in tutto il corpo e quando, finalmente, si stendeva sul letto, non poteva neanche rigirarsi e dormire in pace.
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