Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Le epidemie non sono l’eccezione ma la regola nella storia dell’umanità. Il progresso medico scientifico e la scoperta dei vaccini ne hanno limitate molte e qualcuna l’hanno annientata, come il vaiolo, che dopo essere stata una delle cause più frequenti di morte (mezzo miliardo di persone ancora nel 1900), è stato dichiarato estinto nel 1979.
Le grandi pestilenze italiane che quasi tutti conoscono sono due, quella del 1347 e quella del 1630. La loro fama è dovuta al numero dei morti, ma anche a Boccaccio e Manzoni che le hanno descritte nel Decameron e nei Promessi sposi.
Non si ha documentazione locale sulla “peste nera” che, arrivata dal Mar Nero con le pulci dei ratti, sconvolse l’Europa stroncando oltre un terzo della sua popolazione. Torino registrò dall’estate del 1348 ai primi del 1400 cinque ondate epidemiche che ridussero i suoi abitanti da 4500 a 3000.
Come confermano le ricerche di Guido Lussiana nell’archivio di Coazze e le ricerche storiche locali, sul nostro territorio le ondate epidemiche si sono susseguite soprattutto a partire dal Cinquecento, quando il Piemonte divenne campo di battaglia di Francia e Spagna, segnato da carestie e pestilenze che la rapacità e la sporcizia dei soldati portavano con sé.
Il primo riferimento ad un contagio nei documenti dell’archivio coazzese è del 1501. Per quanto riguarda il territorio giavenese, Gaudenzio Claretta nella sua Cronistoria del Municipio di Giaveno – cui farò riferimento per gran parte dei dati e delle citazioni di questo lavoro – trova il primo riferimento indiretto alla peste solo nel 1562: nei registri dell’anno si annotano 48 fiorini mandati dal presidente Ludovico Dalpozzo, conservatore della peste, per la quarantena di due persone, una delle quali, Pietro Colombato, fu la prima vittima documentata della peste a Giaveno.
Questo episodio rivela quanta cura ci fosse per contenere i contagi, mandando degli specialisti oltre al medico locale e puntando sull’isolamento dei contagiati. Il lazzaretto si allestiva solo in caso di epidemie diffuse, le baite solitarie si prestavano bene all’isolamento per casi sporadici. A Coazze questo sistema venne abbondantemente usato e non fu mai necessario allestire un lazzaretto.
Claretta annota poi con sconforto e, oserei dire, con manzoniana ironia, la spesa per impedire agli “untori” aviglianesi di contaminare Giaveno: l’epidemia che devastava ben più gravemente Avigliana suscitava timore invece di pietà. Campanilismo e bisogno di trovare una causa concreta del morbo, contro cui si potesse combattere, avevano trovato i colpevoli.
I colpevoli erano invece i soldati. Francesco I d’Orléans, in lotta contro Carlo V d’Asburgo, aveva occupato il Piemonte nel 1536; la sconfitta di San Quintino nel 1557 aveva costretto i francesi a restituire i suoi domini al vincitore, Emanuele Filiberto di Savoia ‘Testa di ferro’, ma ci vollero anni prima che le truppe straniere lasciassero il Piemonte.
I soldati, con la loro mobilità e la scarsa igiene, erano veicoli di contagio da cui era praticamente impossibile difendersi. Le razzie e i saccheggi portavano alla fame la popolazione e sugli organismi indeboliti trionfava la malattia. Non restava che la preghiera. L’invocazione “A peste, fame et bello libera nos Domine” evidenzia la richiesta a Dio di fermare questa tragica concatenazione.
Enrico di Montmorency.
Nel 1627 Carlo Emanuele I di Savoia entrava nella Guerra di Successione del Monferrato a fianco degli Spagnoli, col risultato di vedere nuovamente il Piemonte invaso e devastato dai Francesi, i quali con la Pace di Cherasco del 1631 imponevano il loro candidato Carlo di Gonzaga Nevers come duca di Mantova e del Monferrato. Vittorio Amedeo I di Savoia, in cambio di Alba e qualche territorio orientale, si vedeva costretto a cedere Pinerolo ai Francesi e a subirne l’egemonia.
Giaveno si trovò direttamente coinvolta in queste vicende belliche. Il duca Enrico II di Montmorency, da poco nominato dal Richelieu luogotenente generale dell’armata francese in Italia, dopo aver occupato senza colpo ferire Avigliana, abbandonata dagli abitanti a causa del contagio, saliva il 13 maggio 1630 a Giaveno.
Il presidio di Giaveno, alle dipendenze del capitano Giovanni Andrea Battaglia, governatore di Avigliana, era formato dalla milizia paesana, ovvero da uomini reclutati sul posto, motivati e risoluti ad opporsi all’invasione nemica. Già un mese prima avevano costretto alla ritirata i soldati francesi saliti da Pinerolo a Pra l’Abbà.
Il Montmorency giunse sotto le mura di Giaveno alle quattro di sera: appena fu alla portata dei cannoni, si recò a riconoscere il punto più favorevole per sistemare le batterie, che in poche ore aprirono un’ampia breccia nelle fragili mura trecentesche. Ai soldati della milizia non restò che arrendersi.
Via Teresa Marchini, caratterizzata dal platano secolare e dal mercato dei funghi, si chiamava via della Breccia perché corre lungo le mura dove i cannoni del Montmorency avevano aperto una breccia nel corso della battaglia di Giaveno, durata poche ore.
Ma il vero flagello di quell’anno orribile fu la peste. Portata dai mercenari lanzichenecchi in Lombardia e poi diffusa dagli spostamenti degli eserciti, ridusse di un terzo la popolazione. Si stima che a Torino ci furono circa 10.000 morti, su una popolazione di 36.000.
Giaveno, che nel 1627 contava circa 3.400 abitanti, nel 1630 ebbe – secondo il dettagliato resoconto del notaio comunale Giacomo De Jacobis, morto anch’egli del morbo con la moglie e 6 dei suoi 8 figli – 1.199 morti di peste, di cui 308 nel capoluogo, 235 alla Buffa, 318 al Paschero, 84 a Ruata Sangone, 45 al Selvaggio e 205 alla Sala.
I Sindaci Gian Andrea Sclopis Doria e Giovanni Vincenzo Gianotti, ottemperando a quanto decretavano i regolamenti del Consiglio di Sanità di Torino, facevano eseguire la guardia alle porte del paese per impedire l’introduzione di persone e vettovaglie infette.
Inoltre “...A buona distanza dell’abitato facevasi scelta di un orto, ove seppellire i corpi dei defunti pel male contagioso; con molto discernimento facevasi costruire sulle rive del Sangone più ventilate un lazzaretto per sanare gli infetti, e si stabiliva un regolare servizio di monatti, a’ quali si distribuivano sani elementi, affine di tenerli abili al loro servizio ed impedire che danneggiassero la roba altrui, né astenevasi dal chiamare a Giaveno esperti medici, chirurgi e barbieri, come allora costumavasi, non risparmiando il denaro ricevuto”.
Il contagio arrivò anche alla Sacra di San Michele, occupata in quegli anni dai soldati francesi, come risulta dalla richiesta pervenuta al comune giavenese “di mandar homini quello che sarà necessario per nettezza et perfumar il castello di detto San Michele”.
Nel 1630, per porre fine all’epidemia, le comunità di Coazze, Giaveno e Cumiana fecero solenne voto perpetuo di effettuare un pellegrinaggio al Santuario della Madonna dei Laghi di Avigliana. Ancora oggi la domenica successiva alla Pasqua parte dalla chiesa parrocchiale di Coazze (anticamente dalla Cappella della Confraternita) la “pusiùń d’Aviëńa”.
Il 28 luglio dello stesso anno il Comune di Giaveno aveva inoltre fatto voto alla Beata Vergine Maria ed ai santi Rocco, Carlo e Sebastiano di fabbricare una chiesa in loro lode nel borgo.
Isolamento e distanziamento, allora come oggi
L’abbondante documentazione che abbiamo sulla peste del 1630 consente un interessante raffronto con l’epidemia di Covid 19, a partire dal paradosso che proprio il lockdown del 2020 ha impedito che si effettuasse il pellegrinaggio ad Avigliana che a memoria d’uomo si era sempre tenuto.
Secoli di storia e di progressi medico-scientifici hanno ripiegato, prima che fosse disponibile il vaccino, sui vecchi rimedi dell’isolamento e del distanziamento. In un’Italia con meno mobilità e con meno di un quarto della popolazione attuale questi provvedimenti erano più facili da imporre e da gestire: si mettevano guardie ai confini del borgo e gli infetti venivano relegati in baite isolate, capanne in riva al fiume, avvallamenti naturali.
In Val Sangone non resta memoria di questi luoghi, in Val Susa sì: oltre al lazzaretto dell’Orrido di Chianocco si ricorda la Barma Contagiòn, una specie di grotta che si trova a circa 1000 metri di altitudine nel vallone di Supita (Cumba dë Sëpita), sopra la borgata Costa di Venaus. La tradizione orale riferisce che nei momenti di pestilenza, per evitare il contagio, il cibo veniva sporto ai malati in quarantena su una lunga pertica dal lato del valloncello opposto alla grotta.
I medici si abbigliavano anche allora per proteggersi e indossavano una curiosa maschera dal lungo becco, dove mettevano profumi e la “triaca”, un misto di decine di aromi ed erbe, convinti che essi assorbissero i miasmi della peste.
Anche allora c’erano i complottisti, bisognosi di una causa e un nemico concreto contro cui combattere, e ne fecero le spese gli ebrei ed i presunti untori.
Allora come adesso c’erano gli sciacalli e gli eroi. A Torino, mentre la corte reale e uno sciame di nobili si erano rintanati a Cherasco, il sindaco Bellezia e il protomedico Fiocchetto si prodigarono senza sosta. Il primo dalla camera da letto guidava il consiglio comunale dislocato in cortile, il secondo è anche l’autore del Trattato della peste et pestifero contagio di Torino (1631), che relaziona sull’epidemia e contiene un capitolo sul modo di procedere “in tempo di sospetto mal pestifero contagioso o già scoperto” con prescrizioni di sorprendente attualità sulle modalità di isolamento e quarantena degli infetti.
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