Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Sembrerà strano a noi che siamo abituati all'abbondanza di risorse, ma fino alla fine del 1800 e ancora all'inizio del 1900, sopratutto nelle zone montane, mangiare era sinonimo di ricchezza.
Per meglio dire, non è che la gente soffrisse la fame (anche se con l'arrivo delle due guerre mondiali, l'Italia attraverserà un vero e proprio periodo di “carestia”), ma esisteva una netta distinzione tra il cibo del ricco e quello del povero. Distinzione che spesso non era tanto basata sulla tipologia degli alimenti, quanto sulla frequenza con cui gli stessi apparivano in tavola.
Ecco allora che esistevano “piatti della festa” e piatti “di tutti i giorni”, e, se sulla tavola dei benestanti il cosiddetto pranzo della festa poteva capitare anche tutte le domeniche, per la società contadina erano di festa solo i pranzi di occasioni importanti, come matrimoni, Natale, Pasqua, ecc...
Anche i dolci seguivano questa distinzione. Sulla tavola quotidiana era raro trovare un vero e proprio dolce a fine pasto, e spesso la frutta aveva il ruolo di addolcire la chiusura del pranzo o della cena; poteva essere semplicemente una mela cotta in forno (raramente spolverizzata con un po' di zucchero) oppure una pera cotta lentamente nel vino in un tegame lasciato tutta la notte sul “putagè”.
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Nei giorni di festa potevano invece comparire torte di mele o di noci, biscotti di farina gialla profumati di limoni o arricchiti con l'uvetta, torcetti al burro, oppure, se era vero lusso, del cioccolato o delle creme a base di caffè.
La frutta era la vera protagonista di questi semplici dolci, forse anche per ovviare alla scarsa disponibilità di zucchero, ancora considerato un ingrediente raro e costoso. Con la frutta si preparavano torte, budini, focacce, confetture, e ogni località aveva le sue specialità.
In Piemonte erano diffuse le “copete” di noci e miele (antenate del torrone), le pesche ripiene di cacao e amaretti (persi pien) oppure si faceva ricorso ai prodotti del territorio, come le castagne; frequente l'utilizzo di marroni lessati e panna montata, un abbinamento che ha dato origine al famoso Montebianco (o Montblanc per dirla alla francese).
Nel sud Tirolo famoso era (ed è ancora) lo strudel; in Friuli caratteristica è la gubana, che non ha niente a che vedere con l'isola centro-americana, ma che è una pasta lievitata, ripiena di frutta e dalla caratteristica forma a chiocciola. Spesso infatti, questi dolci semplici della tradizione erano ricavati “rubando” un po' di impasto alla panificazione e arricchendola con qualche ingrediente semplice.
A Cogne si preparava il mecoulin, un pane dolce all'uvetta, mentre in Valtellina il panòn, arricchito con castagne e fichi secchi. Lo stesso panettone, dolce tipico del Natale ormai conosciuto in tutto il mondo, affonda le sue origini in questo tipo di preparazioni.
Questi dolci semplici, ricavati dai ritagli della panificazione, erano spesso riservati ai bambini, come nella tradizione dei primo dell'anno, quando si recavano a fare gli auguri al padrino o ai parenti più autorevoli e ne ricevevano in cambio un dolcetto.
Oppure diventavano i dolci della festa come nel caso della focaccia dell'Epifania; qui, una tradizione ereditata dai banchetti dei Savoia voleva che all'interno dell'impasto venisse nascosta una fava, il fortunato che la ritrovava era eletto re della festa.
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Altri dolci sbrigativi, che non richiedevano lievitazione o uso del forno erano le frittelle, una semplice pastella di uova, e farina (a volte latte), nella quale tuffare anche in questo caso frutta secca o fettine di mela; i carafoi nati nelle valli ladine, erano delle semplici losanghe di sfoglia sottilissima fritte nello strutto (da cui le bugie, dolce tipico di carnevale), che volendo si potevano farcire di confettura e in questo caso mutavano il nome in risòle.
In alcuni casi anche il pane raffermo poteva trasformarsi in un dolce. Quando non finiva in una delle tipiche zuppe delle case contadine, poteva essere tagliato a tocchetti o grattugiato, mescolato ad albume montato a neve, latte e un pizzico di cannella per diventare una torta, che i più fortunati potevano arricchire con qualche pezzetto di cedro o arancia candita, fichi secchi o uvetta.
Talvolta bastava anche meno: semplici fette di pane scuro erano passate in uova e latte e fritte in padella col burro, cosparse con un po' di zucchero potevano essere una merenda nutriente ed energetica per i bambini.
La ricetta: Focaccia di Susa con lievito madre
In questa versione della focaccia di Susa torniamo alla tradizione con l'utilizzo del lievito madre, che era il metodo tradizionale di panificazione di un tempo.
Se non si dispone del lievito madre si può sostituire nella ricetta con 8 grammi di lievito di birra.
Ingredienti:
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250 g di farina 00
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120 g di zucchero
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70 g di burro
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100 g di lievito madre rinfrescato
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1 uovo
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q.b. acqua
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un pizzico di sale
Procedimento
A mano o con l'impastatrice iniziate ad impastare la farina con il lievito sciolto in circa 50 g di acqua e l'uovo. Unite 80 g dello zucchero preso dal totale degli ingredienti e un pizzico di sale, infine poco per volta 50 g di burro morbido.
Alla fine dovrà risultare un impasto morbido e liscio (se è troppo duro si può aggiungere un pochino d'acqua). A questo punto coprite la ciotola con della pellicola e lasciate lievitare per circa 4 ore.
Trascorso questo tempo con il resto del burro rimasto imburrate una teglia rotonda del diametro di circa 25 cm e cospargetela di zucchero (prendendone metà di quello rimasto dal totale degli ingredienti); stendetevi la focaccia (che dovrà avere uno spessore di circa 2 cm) e lasciate riposare ancora un'ora e mezza/due.
Prima di infornare la focaccia di Susa punzecchiatela con una forchetta e cospargetela con lo zucchero rimasto, quindi infornate a 200° C per circa 10 minuti, poi abbassate la temperatura a 180° C e proseguite la cottura per altri 15 minuti. A fine cottura lo zucchero in superficie risulterà caramellato e formerà una deliziosa crosticina croccante.
La focaccia di Susa, resa celebre dal panificio Favro, che la produce fin dal 1870, è buona sia tiepida che fredda.
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