Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Agli inizi del 1600 in molte zone di montagna, ed anche in Val di Susa, i prodotti provenienti “dalle Indie” (così come venivano chiamati i nuovi cibi scoperti con la conquista delle Americhe) non erano ancora conosciuti; eppure di polenta si parlava già da diversi secoli!
Gli antichi Romani ad esempio preparavano la pulis di farro, e più di recente nelle valli piemontesi si preparavano diversi tipi di potìe, una via di mezzo tra una minestra e una polenta, perchè preparata con una quantità di farina scarsa rispetto all'acqua o al latte. Nel medioevo ritroviamo diverse versioni di queste “polente”: d'avena e orzo, di grano saraceno, di miglio, che avevano già aperto la strada all'arrivo della farina di mais che stava per giungere dal nuovo mondo.
In realtà c'è chi sostiene che il mais (mahiz come lo definì Cristoforo Colombo sul suo giornale di bordo) venisse coltivato in Europa già molto tempo prima della scoperta dell'America, importato dalla Persia da alcuni viaggiatori tedeschi che lo avrebbero portato in Francia (da qui il nome di “grano turco”).
In Italia il primato di aver avviato le prime coltivazioni di mais spetta al Veneto, ma ben presto questo alimento si rivela una preziosa risorsa per la scarsa dieta invernale degli abitanti della montagna. Insieme a patate e castagne diviene quindi, anche in Val di Susa, perno dell'alimentazione quotidiana.
Entro la fine del XVII secolo anche nella nostra valle si diffonde la coltura di questa pianta, che presenta un duplice vantaggio: è facile da coltivare e dà raccolti abbondanti. Dal 1700 in poi la polenta di mais soppianta quindi gli altri tipi di polenta e diventa cibo di tutti i giorni per molte popolazioni sopratutto nelle valli alpine.
La farina di mais divenne un prodotto di scambio, mentre i fusti e i tutoli venivano bruciati e le foglie si usavano per riempire i sacconi del letto.
La polenta costava molto meno del frumento e si poteva consumare sia calda che fredda, accompagnandola praticamente con tutto, ma sopratutto saziava! D'estate le donne portavano polenta con latte agli uomini impegnati nella fienagione, d'inverno i bambini ne infilavano qualche fetta nella cartella con noci e castagne.
Disprezzato dai padroni il mais non rientrava nei patti di affittanza: al contadino spettava dunque l'intero raccolto, un buon motivo per coltivarne in abbondanza. Con la farina di mais poi si potevano preparare anche pane e dolci; un detto piemontese recitava: “La polenta a fa quat bin, a serv da mnestra, a serv da pan, a 'mpiniss la pansa e a scauda le man” (la polenta fa bene quattro volte, serve da minestra, da pane, riempie la pancia e scalda le mani). In dialetto piemontese il mais diventa “meliga”, parola che deriva da “melia” o “meria”, cioè sorgo, per la somiglianza delle due piante.
Saper preparare la polenta era una delle doti richieste ad una ragazza da marito: nel paiolo di rame appeso sul focolare in cucina si metteva a bollire l'acqua, alla padrona di casa spettava il diritto di menare la polenta, si versava la farina prima che l'acqua iniziasse il bollore (rigorosamente con la mano sinistra), poi, con la mano destra (la stessa con cui si fa il segno della croce), si mescolava, in senso rotatorio, con movimenti rapidi e per una sessantina di minuti almeno.
La polenta era pronta quando prendendone un mezzo cucchiaio col palmo della mano, si sfregava e si formava una pallina soda e non appiccicosa; la si ribaltava allora sul tagliere di legno e la si affettava con un filo bianco. Nel paiolo rimaneva una crosta sottile e croccante, che si staccava perfettamente e non veniva assolutamente buttata.
Gli abbinamenti più comuni erano con burro e formaggio (polenta concia) o con salsa di pomodoro insaporita con cipolla, prezzemolo e aglio. Non mancavano gli abbinamenti dolci, con cognà d'uva o confettura di susine. Oppure, in una versione più morbida, con il latte rappresentava molto spesso l'unica pietanza del pasto serale. Quella che avanzava veniva abbrustolita o fritta nel burro e serviva da contorno.
Solo raramente e nei giorni di festa si poteva gustare con un brasato o uno spezzatino, un civet di coniglio, pollo alla cacciatora, lepre in salmì o ciccioli di maiale, oppure con lo stoccafisso. Di tutte queste preparazioni la “polenta e merluss” rappresentava la ricetta che più raramente compariva sulle tavole dei valsusini, anzitutto per la sua preparazione piuttosto lunga, e poi perchè realizzata con un ingrediente (lo stoccafisso appunto) reperibile solo in certe occasioni e da pochi venditori.
Forse per tutti questi motivi rimane la ricetta più radicata nei ricordi dei montanari della Val di Susa.
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Polenta e merluss
Per la sua preparazione occorrono:
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1 Kg di stoccafisso (lasciato a mollo in acqua fredda per una settimana. L'acqua va sostituita più volte, questo consente di dissalare e iniziare ad ammorbidire il pesce)
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½ kg di cipolle bianche
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un ciuffo di prezzemolo tritato
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1 l di latte
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sale e olio d'oliva q.b.
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Farina
In una pentola (meglio se di coccio) si fanno soffriggere nell'olio le cipolle affettate sottilmente. Si eliminano la pelle e le lische dello stoccafisso e lo si taglia a listarelle, quindi lo si infarina e lo si mette nel tegame insieme alle cipolle. Si aggiunge una bella manciata di prezzemolo tritato e si copre tutto di latte. A questo punto si lascia cuocere a fuoco bassissimo per circa tre ore, aggiungendo altro latte tiepido se tendesse ad asciugare troppo. Solo a fine cottura si controlla se occorre salare ulteriormente, perchè spesso il merluzzo mantiene ancora un po' della sua sapidità.
Quando è il momento, si prepara la polenta e si serve su un grande tagliere di legno accompagnandola con il merluzzo e il suo intingolo.
La stessa ricetta veniva spesso preparata anche con il pomodoro: preparazione e cottura restano le stesse, ma si sostituisce il latte con altrettanta salsa di pomodoro.
Potete trovare altre ricette di Rosa Del Gaudo sul blog Il Folletto Panettiere