Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Talvolta, le espressioni dialettali vengono utilizzate per descrivere particolari caratteristiche di qualcuno, divenendo nel tempo una sorta di identificativo del personaggio stesso. È il caso del termine falabràch, che in piemontese sta ad indicare un fanfarone, una persona adulta che si diletta con sciocchezze che non si addicono alla sua età.
Pare che il termine abbia origine dal francese Fier-à-bras (anche detto Fierabras), alla lettera braccio di ferro, coraggioso, braccio formidabile. In realtà, nel dialetto piemontese, la parola non è sinonimo di incredibile coraggio, ma si riferisce ad un uomo senza particolari competenze, che si dà delle arie, un inetto, un fanfarone.
La contaminazione del lessico pare sia dovuta ad una canzone popolare di epoca medioevale, la Chanson de Fier-à-Bras, composta intorno al 1170. Essa narra le gesta di un cavaliere saraceno, Fier-à-Bras, appunto, un gigante che era fratello dell’incantevole Floripas, nonché figlio del re moro di Spagna Balan.
Secondo la Chansons de Geste medievale dopo aver invaso Roma con l’esercito saraceno, Fier-à- Bras saccheggiò la città e rientrò in Spagna portandosi appresso la croce, la corona di spine ed il balsamo con cui Maria Maddalena aveva unto il corpo di Gesù Cristo. Inseguito da Carlo Magno, intenzionato a riprendersi quanto trafugato, Fier-à-Bras venne affrontato in duello e sconfitto dal cavaliere Olivier.
Il “prode” Fierabras con la sua armatura e, a destra, il ben più tranquillo “flaneur”.
Durante il combattimento il gigante si convertì alla fede cristiana, arruolandosi nell’esercito di Carlo Magno. L’esercito saraceno e quello di Carlo Magno si affrontarono in battaglia, il Re Balan venne ucciso e le reliquie tornarono al loro posto, conservate nella basilica di Saint Denis.
L’assonanza tra Fierabras e falabrach ha inserito questo epiteto nel vocabolario dei termini piemontesi che si utilizzano quando si intende rivolgere a qualcuno un pensiero non propriamente gentile, ma in realtà c’è anche chi, per contrasto, assume questo termine in modo positivo, quasi a dire “siamo adulti, ma sappiamo ancora divertirci in modo spensierato come quando eravamo bambini”.
È il caso di un ristorante, di un caffè e di un gruppo valsusino di appassionati (ed accompagnatori) di Mountain Bike, che ha scelto di chiamarsi proprio Falabrak Trips (le escursioni dei Falabrach): qui trovate la loro interessante e simpatica pagina Facebook.
Un’avventura “da FalabrachTrips”: in bicicletta sotto la neve...
Se l’accostamento ad un cavaliere vi sembra esagerato per descrivere una persona non particolarmente affidabile, sappiate che potrete utilizzare anche il termine Ciaparat, nato dall’unione tra la seconda persona del verbo acchiappare (ciapa) e rat che, come in francese, equivale a topo. Un Ciaparat è quindi un acchiappatopi, ovverosia un incapace.
“Va a ciappà i ratt”, in dialetto milanese, significa togliti dai piedi. Questa espressione nacque negli anni 20 del secolo scorso quando a Milano, per combattere il tifo, fu organizzata un’imponente operazione di derattizzazione, e per incoraggiare la catura dei roditori vennero previsti dei premi in denaro. Di qui il senso della frase: “se non sai fare altro, vai almeno alla caccia dei topi!”.
I ciaparatt dell'ortica (Milano scomparsa)
Diverso, invece, è l’appellativo Ciapa-Ciapa, che sta ad indicare un qualcosa di molto reclamizzato ma poco utile ("Acchiappa-acchiappa") o Ciapaciuc (letteralmente "acchiappa ubriachi"), appellativo che, in modo assai irriverente, viene a volte accostato ai Carabinieri.
Gli svogliati invece nel dialetto piemontese vengono definiti in più modi, a seconda del loro grado di fannullaggine: chi non ha proprio voglia di fare nulla è un fagnan, cioè uno scansafatiche, mentre il gadan è un fannullone, che per di più è anche sciocco. Ad essi si aggiunge il frusta-cadreghe, alla lettera logoratore di sedie, termine con cui non può che essere identificato un gran poltrone.
Più positivo invece il termine flaneur, mutuato dal francese, che sta ad indicare un “ozioso affaccendato”: bighellone e perditempo ma dotato di stile e capacità di osservazione. Il termine è stato reso celebre dal poeta francese Charles Baudelaire, e indica il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta ed osservando il paesaggio.
Insomma, il dialetto è davvero ricco di sottili sfumature, da impiegare alla bisogna in molteplici situazioni, comprese quelle in cui si fa fatica a contenere la rabbia e val la pena lasciarsi sfuggire un “varda mach che falabrach!” per definire un personaggio che si vanta di meriti che in realtà non possiede.