Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Il periodo di Carnevale era un momento di riposo nel mondo contadino: si faceva legna, qualche riparazione in casa e c’era tempo, nelle lunghe notti, per “le vià”. Nelle stalle, i locali più caldi della casa (ci pensavano le mucche), si vegliava, chiacchierando ma anche continuando a lavorare: fare la tela, lavorare a maglia, scegliere le castagne, fare piccole riparazioni.
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In questo periodo poteva capitare che arrivassero “le magne” (le zie) a vivacizzare la serata. Erano di solito maschi che si presentavano mascherati, con abiti femminili e voci in falsetto per non essere riconosciuti. Era un tira e molla continuo, tra domande indagatrici e risposte elusive. C’era chi faceva scena muta, soprattutto se visitava amici o parenti, che anche con la voce alterata avrebbero potuto riconoscerlo: la soddisfazione era sentirli il giorno dopo interrogarsi sull’identità delle “magne” visitatrici della notte precedente.
Si poteva “alè ań màgna” fin da dopo l’Epifania, mentre gli ultimi giorni di Carnevale, “li drié giòrn”, si andava in “brëndu”.
Brando, che a Coazze è anche il nome di una borgata e un cognome diffuso, deriva dall’antico francese “Branler”, che significa “ondeggiare, scuotere”, ed è anche il nome di un’antica danza monferrina molto vivace.
Dal verbo deriva pure il nome di una caratteristica ricetta marinara ligure a base di merluzzo, il “brandacujun”, che richiedeva appunto di girare e rimestare a lungo l’impasto, assecondando l’ondeggiare della barca.
“Alè ań brëndu”, che potremmo tradurre all’incirca con “girovagare”, era un modo divertente per procurarsi gli ingredienti per una bella cena carnevalesca. Organizzati in comitiva e vestiti bizzarramente i giovani giravano per le case suonando e cantando Martina, una canzone con domande e risposte, a cui si rispondeva dall’interno dell’abitazione.
Il gruppo dei "brëndu", probabilmente nel Carnevale del 2009, con tre versioni della "véii" (foto di Marco Rosa Marin).
Veniva poi la richiesta “Parëń për carlëvé?” (“Niente per carnevale?”) e l’offerta di vino. Di solito dalle case in risposta si offrivano uova, caramelle e biscotti ai piccoli; tome e bottiglie di vino erano più rare ma molto gradite. Una bella frittata in compagnia concludeva la giornata.
Questa pratica è quella che più ha resistito e prima del Covid veniva ancora praticata, in modo quasi “istituzionale”, con accompagnamento musicale e supporto motorizzato.
La Véii, maschera di Coazze
Durante il brëndu la bellezza delle maschere e l’accompagnamento musicale inducevano la gente ad essere generosa, ed i giovani facevano a gara nel creare le maschere più originali.
Giuseppe Tessa, "Giüspìń d’Giantésa" con la prima véii da lui costruita nel 1902, poi divenuta la maschera tradizionale di Coazze.
Nel 1902 Giüspìń d’Giantésa (Giuseppe Tessa), ricordandosi di un travestimento visto a Roma durante il servizio militare, decise di realizzare una maschera ispirata ad un sapido detto coazzese: “chiel-lì i pòlunt purtélu a suliéise an t’in val” (quello lì possono portarlo a scaldarsi al sole in un vaglio, riferito a persona ormai debole e malandata). Nella foto sopra al titolo Giuseppe Tessa con la prima véii da lui costruita nel 1902.
Nella maschera il portatore (lu vèi) spunta dalla gerla nella quale deve sembrare seduto, un effetto accentuato dalle finte gambe sporgenti. Il fantoccio della vecchia (la vèii) ha la gonna che nasconde le gambe del portatore e la gerla (garbìn) sulle spalle. Sembra quindi che sia il fantoccio a portare il vecchio, specie se il portatore riesce a camminare nel modo (gëddu) giusto, dando l’impressione che sia la vecchia a farlo.
Il debutto della maschera ebbe un gran successo di pubblico, ma una fine tragicomica. Giüspìń e il suo amico, lu Gòrla, partirono da Ruadamonte scendendo verso il Villargrande; la gente lungo la strada manifestava il suo consenso all’originalità delle maschere offrendo ai due portatori abbondanti bevute, che crearono ben presto ai due problemi di equilibrio.
Alla Randolina qualcuno pensò poi di dar da bere ad un caprone che pascolava nei pressi e questo si mise a rincorrere il corteo. I più svelti se la squagliarono ma le due maschere rimasero in balia dell’animale e, vuoi per il vino, vuoi per l’impaccio delle bardature, nel maldestro tentativo di sottrarsi alle sue “attenzioni”, finirono nella bealera che fiancheggiava la strada, mandando a monte la sfilata.
Il giorno successivo le due maschere vennero riprese da due giovanotti (forse astemi?) che riuscirono a compiere il giro del paese, suscitando grande scalpore.
Accanto alla versione tradizionale, con la vecchia che porta il véi nella gerla (garbìń), venne allestita una maschera in cui il vecchio, come nel detto popolare, si scalda al sole nel vaglio del grano (val)” .
L’anno dopo la vèii non venne più preparata e solo nel 1928 alcuni giovani la approntarono di nuovo, sempre sotto la guida di Giüspìń, riscuotendo un immancabile successo. Nonostante ciò la maschera non venne più allestita negli anni successivi e solo nel dopoguerra, negli anni Cinquanta, fece la sua sporadica ricomparsa nei carnevali di Torino.
In questa foto del 1928, fornita da Bruna Giacone per il libro “Coazze com’eravamo", accanto a quella tradizionale con la gerla c’è un’altra versione della maschera, col vecchio portato a spalle, “ań caribuléta", dalla véii.
Un’usanza praticamente sparita è invece quella del “sabato disperato”, tipica non solo di Coazze.
L’ultimo sabato di carnevale era “lu disëndu dasprà”, in cui i giovani si divertivano a fare le “dësdésie”: scherzi e dispetti, di solito innocenti ma a volte piuttosto pesanti, che prendevano di mira soprattutto le case dove c’erano le “mariòire”, le ragazze nubili.
Si nascondevano o si scambiavano di posto attrezzi e oggetti, spesso i panni stesi ed in particolare la biancheria intima. Se andava bene finivano sugli alberi vicini, molto peggio era ritrovare coperte, lenzuola o materassi in mezzo ai prati o addirittura nei “baciàss” (lavatoi).
Una “tradizione” di cui non c’è particolare rimpianto.
Dal 1999 alla maschera tradizionale, a destra impersonata da Marco Rosa Marin, si è affiancata, sul modello dei carnevali vicini, una coppia di maschere, “lu vèi e la vèii“, impersonati da Eraldo Ruffino e Adriana Fantoni.
Maggiori informazioni sul sito "Scuola Guido":
È proprio vecchia la “véii” di Coazze: ha 120 anni
“Magne”, “brëndu” e “disëndu dasprà”: era questo il Carnevale di Coazze