Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Ai primi freddi autunnali, al giorno d’oggi, si accende il riscaldamento. In passato questa comodità non esisteva, mentre invece era abitudine, nei borghi agricoli del Piemonte, trascorrere le lunghe serate nelle stalle insieme ad altre famiglie, dando luogo alla tradizionale vijà.
Questa parola, derivante dal verbo “vijè”, ovvero vegliare, sta ad indicare un momento di compagnia collettiva, nel quale ci si radunava, per il piacere di stare assieme o in attesa di qualche evento: poteva essere il parto di un animale ma anche una veglia di preghiera in onore di un defunto, oppure semplicemente la compagnia a qualcuno che in quel momento non godeva di buona salute.
Per trascorrere il tempo durante la vijà vi erano molte occupazioni: alcuni si producevano in racconti, altri recitavano poesie, molti ancora si cimentavano in giochi popolari, mentre i più giovani coltivavano amori giovanili fatti di ammiccamenti di intesa e occhiate furtive.
Le donne cucivano, ricamavano, lavoravano ai ferri. Gli uomini si scambiavano informazioni sui lavori rurali, sul raccolto, giocavano a carte, spesso accompagnando i vari aneddoti con qualche bevuta. Rapidamente l’atmosfera si rallegrava e, accompagnate dai cori dei presenti, prendevano vita le ballate.
L'interno di una stalla in un dipinto di Giorgio Giacoboni, pittore del settecento di origine piacentina.
Tutte queste persone si trovavano nella stalla: vuoi perché si trattava di spazi idonei, per le loro dimensioni, ad accogliere un buon numero di persone, vuoi perché, grazie al fiato degli animali, l’ambiente garantiva il giusto tepore senza necessità di stufe o camini aggiuntivi.
La vijà riscaldava i corpi ma non solo: la condivisione di questi attimi era un momento aggregativo che faceva del bene all’animo. All’evento partecipavano tutti, grandi e piccini: c’era chi suonava, chi giocava, chi pregava, chi intrecciava cesti, chi approfittava del momento conviviale per dedicarsi alla riparazione di qualche attrezzo. I neonati dormivano nella culla, dondolati amorevolmente dalle loro mamme.
Abitualmente, il momento culmine della vijà era un racconto di masche, le streghe che popolavano la fantasia di un tempo: c’era sempre qualcuno che giurava di averle incontrate o di averne scorti i malefici in qualche frangente della propria quotidianità.
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Una tradizione che si è persa
La vijà talvolta rappresentava anche un momento di lavoro condiviso: capitava, ad esempio, che le donne si trovassero in gruppo per “sfogliare” le pannocchie di granoturco, rendendo meno gravoso un impegno che svolto singolarmente sarebbe stato più pesante.
Oppure, specialmente in prossimità del Natale, le vijà celebravano l’avvento con l’intonazione di canti natalizi. Non servivano palinsesti televisivi per raggruppare tante persone in un unico consesso: niente partite, spettacoli e varietà. Semplicemente, la voglia di raccontarsi l’un l’altro, di condividere esperienze di vita e sapere chiudeva le giornate, cedendo il passo all’avanzare della notte.
C’era spazio per i balli, per i canti e anche per qualche peccatuccio di gola, dato che per le vijà ci si riuniva a turno: oggi da una famiglia, domani da un’altra, il giorno dopo in un’altra ancora, portando con sé formaggi e salumi per ricompensare l’ospitalità. Niente di esagerato, perché si vivevano momenti di ristrettezza alimentare ed economica, un semplice omaggio per ricambiare l’accoglienza.
A metà del Novecento, quando il possesso di un apparecchio televisivo era privilegio di pochi, le sale dei bar ed i salotti di casa hanno per un po’ sostituito le stalle in questo rito collettivo, finalizzato alla visione di “Lascia o Raddoppia” o del “Musichiere”.
Pian piano però queste abitudini sono state progressivamente abbandonate, trasformando il tanto atteso momento della vijà in un souvenir di altri tempi, che ormai appartiene soltanto alla tradizione orale di chi l’ha vissuta e continua a raccontarla.