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Il mercante astigiano Bonifacio Roero (Rotario) sancì la cristianizzazione del Rocciamelone collocando sulla vetta un trittico in ottone dorato, fatto realizzare probabilmente a Bruges. L’impresa di Bonifacio, condotta il Il 1 settembre 1358, riveste un interesse anche alpinistico in quanto la sua salita è annoverata come la più antica scalata documentata ad una vetta.
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Il trittico nella brossura del Museo Diocesano di Susa viene definito “altarolo portatile”. Altarolo è un diminutivo di altare, una forma comune per definire l’altare portatile: si tratta della mensa mobile per celebrare la messa al di fuori dei luoghi di culto. Il termine altarolo è adottato comunemente, per estensione, anche per arredi di carattere devozionale a forma di edicola o di tabernacolo.
Si compone di tre parti, secondo motivi composizionali diffusi, con al centro l’effigie della Madonna con Bambino e ai lati dei Santi e il committente. Le due lastre laterali, incernierate, possono chiudersi come sportelli, proteggere l’interno decorato e rendere più comodo il trasporto. Il punto debole erano gli ornamenti della cuspide: delle sei foglie di vite sporgenti solo una è sopravvissuta.
Il trittico aperto misura 50 centimetri di lunghezza e 56 di altezza e pesa circa 7 chili. La famiglia Cavargna offrì una custodia di legno con spallacci, tipo zaino, per facilitarne il trasporto quando veniva portato in processione.
L’origine
L’autore è ignoto e gli studiosi hanno avanzato nel tempo varie ipotesi. Anticamente lo si attribuiva a Giorgio Fiorentino o a Bernardo Daddi, discepolo di Giotto; Sir Jannes Mann, Soprintendente alle Gallerie d’arte della Regina d'Inghilterra venuto a Susa appositamente per studiare l’icona nel 1957, propendeva per l’arte fiamminga (...).
Il prof. Giovanni Romano, Soprintendente per i Beni Storici ed Artistici del Piemonte – che ha studiato il Trittico in occasione della Mostra svoltasi a Torino nel 1977 – lo ritiene opera francese e, più precisamente, di un orafo parigino, basandosi specialmente sul trattamento delle figure e sugli ornati “à ramages” molto simili a quelli dei famosi arazzi di Angers e di alcune fra le più belle vetrate francesi.
L’insigne studioso, confrontandolo con altre opere di altissimo livello nel campo della scultura e della pittura di quella nazione, non esitava ad affermare: “Di tutti gli oggetti d’arte giunti dalla Francia in Valle di Susa, questo è sicuramente il più importante” (...).
La decorazione
La tavola centrale raffigura la Vergine Madre seduta su ampio trono a cassapanca, col capo cinto da un’alta corona regale e in atto di sostenere con le braccia il Bambino Gesù; questi guarda verso la Madre, cui accarezza il mento con la manina destra, mentre con la sinistra regge una piccola sfera che simboleggia il mondo. Madre e Figlio hanno il capo circondato dall’aureola.
Nell’anta collocata a sinistra di chi guarda si vede S. Giorgio a cavallo avvolto in un’armatura a maglie metalliche, la visiera dell’elmo calata sugli occhi, che con una lunga lancia trafigge nella gola il drago infernale che, riverso, è calpestato da uno zoccolo del cavallo. Meno accreditata l’ipotesi che si tratti di San Secondo, patrono di Asti, la città di Lotario, che viene raffigurato come guerriero a cavallo, ma la presenza del drago rimanda a San Giorgio.
Sull’anta di destra sta ritto un santo barbuto, coi capelli scarmigliati e aureolato – probabilmente S. Giovanni Battista, Patrono dei Cavalieri detti anticamente “di Gerusalemme” ed ora “di Malta” – che presenta alla Madonna, ponendogli le mani sulle spalle, un guerriero inginocchiato, con le mani giunte ed elevate in atto di supplica.
Questo guerriero, tutto chiuso nell’armatura metallica e con la spada al fianco, è sicuramente il committente Bonifacio Rotario, anche se lo stemma che dovrebbe contraddistinguerlo – tre ruote d’argento in campo rosso – già inciso sullo scudo e forse anche sull’armatura, è stato scalpellato, presumibilmente durante la Rivoluzione francese.
Il nostro Cavaliere è a capo scoperto, però in alto, di fianco al volto del Santo predetto, si scorge sospeso il suo elmo. Questo, altissimo e di foggia assai curiosa, reca incisa una piccola croce (“di Malta” secondo Giuseppe Pugno), è coronato e sorregge un cimiero di interpretazione incerta (tronco con rametti mozzati, roccia con dirupi, lampada con fiammelle?).
Lo storico giavenese Gaudenzio Claretta indagando su Bonifacio lo individua come figlio di Daniele Roero e consignore di Monteu, santo Stefano e Castagneto, vivente almeno fino al 1387, quando fece testamento. Non trova notizia della sua appartenenza ai Cavalieri di Gerusalemme e dubita che la croce incisa sull’elmo possa dirsi “di Malta”. Questo potrebbe invalidare l’identificazione di San Giovanni. Qualcuno ha ipotizzato che il santo che presenta il committente possa essere San Giuseppe .
Tutto il lavoro è inciso col bulino (arte toreutica) in modo che ne risulta un bassorilievo a superficie piana (diaglifica), con solchi, in taluni punti, piuttosto larghi quasi dovessero servire per la niellatura. Il Trittico, oltre che oggetto di culto veneratissimo e di rilevante importanza storica, è un’opera d’arte insigne e preziosa, anche perché, insolitamente, è datata e unica nel suo genere in Italia.
Se si tiene conto, poi, della sua precocità e della difficile lavorazione a bulino sul bronzo con cui fu eseguito, non si può non ammirarne la finezza e la fluidità dei panneggi (specialmente il manto della Madonna) e la raffinata eleganza degli arabeschi. Sufficiente la naturalezza degli atteggiamenti, meno riuscita l’espressività dei volti, delineati in modo ripetitivo.
Il trittico si trova oggi nella sede del Museo Diocesano di Arte Sacra di Susa, situato nella chiesa della Madonna del Ponte.
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