Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Tra gli abitati di Borgone e di San Didero, una stradina s’infila tra i pascoli, indicata da un cartello con la scritta “Maomet”. La stradina si fa presto sentiero, e s’addentra nel bosco, costeggiando dapprima vecchi terrazzamenti dismessi e le capanne dove i viticoltori di qualche generazione fa preparavano il verderame. (...)
Procedendo lungo il sentiero, un intrico di muretti a secco dalla forma e dai percorsi irregolari sfila tra la vegetazione, memore di ere passate. Pare che siano lì da più di 3000 anni, e che abbiano visto l’uomo passare dall’età del bronzo a quella del ferro. Allo stesso periodo sembrano appartenere anche lo scheletro di un uomo, deposto nella nuda terra, e delle coppelle (votive?) scavate nella roccia antistante alla sepoltura: indizio, forse, che il bosco è stato oggetto di culto fin da tempi antichi. (...)
C’è indubbiamente un’aria strana, nel bosco, e la sacralità della zona proseguì in epoca celtica, quando divenne un nemeton, uno dei tanti boschi sacri che punteggiavano la valle. Se ci fosse un albero sacro per eccellenza davanti al quale si apriva la radura che tuttora è presente, non è possibile saperlo.
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Il bosco che vi cresce oggi, infatti, è abbastanza giovane. Non ci sono alberi secolari, ma, nella densa macchia di robinie, arrivate dall’America nel ‘600, spunta ancora qualche quercia, indizio che forse questo era un drunemeton, un bosco sacro di querce, come quello a cui accenna Strabone quando parla dei Galati dell’Asia Minore, popolazione, come indica il nome, che ricorda quello dei Galli, di origine celtica.
I Romani temevano i boschi sacri. Li temevano dal punto di vista politico, perché fonte di un’ispirazione religiosa avversa al loro dominio, e li temevano dal punto di vista irrazionale, come sedi di riti che non potevano comprendere, tanto da raccontare di boschi che prendono vita, di alberi che piombano sui legionari e ne fanno strage.
Non stupisce, dunque, che, in nome dell’annessione delle terre celtiche ai domini di Roma, i boschi sacri siano stati spesso abbattuti. Il primo fu Cesare, a Marsiglia, che, sfidando il timore della truppa, abbatté con le proprie mani il primo albero del nemeton. E nel 60 d.C. il console Svetonio Paolino si spinse addirittura a radere al suolo il nemeton cardine del mondo druidico, quello dell’isola di Mona, in Britannia.
Ma forse non fu questo il destino del nemeton di Borgone. Nelle Alpi segusine, la cultura celtica resistette abbastanza bene anche sotto il dominio romano, e, nel II secolo d.C., compare nell’antico luogo di culto boschivo un simbolo nuovo.
Si tratta di un’edicoletta scolpita nella roccia di un masso erratico sul lato sud della radura, di fronte alle coppelle. Raffigura un piccolo tempio e, all’interno di esso, un uomo stante, con in mano un falcetto e un bastone, con un mantello fissato alle spalle e un cane ai suoi piedi. L’iscrizione è molto rovinata, e sono state date interpretazioni diverse: chi ci ha visto il dio Vertumno, di origine etrusca, chi Giove dolicheno, chi Annibale.
In realtà pare si tratti del dio Silvano. L’iscrizione, infatti, sembra che reciti così: [D]eo / [Si]lvano / L(ucius) Vettius Avitus / V(otum) S(olvit) [Libens] M(erito). E l’iconografia è simile ad altri reperti dedicati a Silvano conservati nel museo archeologico di Torino. E quale dio meglio di Silvano, che porta il bosco nel suo nome, per perpetuare l’aura di sacralità di questo luogo, per traghettare il culto celtico all’interno del pantheon romano?
Un culto della fine dell’età del bronzo, dunque, è stato continuato dai Celti, e, successivamente, dai Romani, ogni volta cambiando nome e attributi. Ma con l’avvento della religione cristiana, questo flusso di trasmigrazione s’interruppe, o meglio, cambiò direzione.
Sarebbe normale aspettarsi, come avvenne per molti altri culti e feste, che il Silvano romano venisse assorbito dal cristianesimo e trasformato in un qualche santo, magari San Rocco, molto venerato in valle. E invece così non accadde. Nell’alto medioevo, a quanto pare, i boschi divennero un luogo insicuro, sede dei sabba delle masche (termine locale per indicare le streghe) e nascondiglio per i Saraceni, le cui incursioni e i cui saccheggi terrorizzarono la valle per tutto il X secolo.
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Fu così che l’immagine del dio Silvano, lungi dall’essere espressione di una religiosità autoctona, divenne icona dell’invasore, e cominciarono a circolare le voci che quell’uomo scolpito nella pietra altri non fosse che il profeta Maometto, il cui nome conserva tutt'ora.
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