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L’impresa con cui Bonifacio Roero o Rotario, nel 1358, porta sulla vetta del Rocciamelone un trittico bronzeo con al centro l’effigie della Madonna con Bambino, a sinistra San Giorgio a cavallo e a destra San Giovanni Battista, che presenta a Maria Bonifacio, ha da subito un’importante eco a livello devozionale.
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La salita alla vetta non è un’impresa riservata solo a pochi temerari: è probabile che fin da subito diventi meta della fede popolare.
In un documento del 3 marzo 1549, conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Susa, Cristoforo de Feys, Vicario Generale dell’Abate Commendatario di San Giusto, Giovanni Ambrogio di Vimercate, ordina a parroci e rettori delle chiese dipendenti di dare lettura, per tre domeniche consecutive, di un’ammonizione da lui emanata: chi detiene illegalmente oggetti appartenenti alla cappella posta sulla cima del Rocciamelone deve restituirli.
In quel secolo alcuni viaggiatori, colpiti da quella forte forma di devozione, ne lasciano testimonianza nei loro scritti.
Il primo ad accennare al Rocciamelone e alle sue Processioni è l'orleanese Nicolas Audebert, in Italia per il suo “viaggio d’istruzione”, durato dal 2 ottobre del 1574 al 27 aprile del 1578.
Narra la sua esperienza nel diario Voyage d’Italie, conservato in originale al British Museum, nel Fondo Lansdowne e pubblicato in due volumi tra il 1981 e l’83, da Adalberto Olivero.
Nel marzo-aprile 1578 Audebert lascia l’Italia e torna ad attraversare, in condizioni climatiche avverse, il Moncenisio: in mezzo alla bufera è aiutato dai portatori locali, i Marrons, e scende a Lanslebourg in ramasse.
È in questa occasione che scrive brevemente del “Roche Rommelon”: “sur le sommet duquel” c’è una cappella raggiungibile, a causa della “grande froidure”, e quindi per la probabile persistenza della neve, solo ad agosto.
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La maggior parte dei fedeli salgono “le jour de l’Assumption” (l’Assunta, 15 agosto), quando si celebra una messa.
L’ascesa è una pratica talmente consolidata che gli anziani fanno sfoggio delle proprie imprese: “les vieilles gens comptent combien de foys ilz y ont esté, faisant gloire de la quantité de tel voyages” (i vecchi contano quante volte ci sono stati, vantandosi della quantità di tali viaggi).
Chi ritorna si vanta come se avesse fatto un “grand voyage” perché occorrono, “pres de deux jours à monter à pied” (circa due giorni per salire a piedi) ed è necessario portare con sé “du vinaigre” (aceto): l’elevata altezza è causa di “grandes defaillances et esvanoiussemens, ainsy que m’ont compté ceux qui y ont esté” (grandi fallimenti e sparizioni, come mi hanno raccontato quelli che ci sono stati).
Nel 1584 il Cardinale Guido Luca Ferrero, allora Abate Commendatario di San Giusto di Susa e della Sacra di San Michele, compie una visita pastorale nei territori soggetti all’Abbazia segusina.
Il Cardinale non si reca alla cappella sul Rocciamelone: il sentiero è troppo impervio e non trova nemmeno nessuno che la raggiunga in sua vece.
Si accontenta di informazioni altrui: per l’immagine della Vergine è un punto di forte frequentazione devozionale nonostante vi si acceda solo a luglio e agosto, causa dell’imperversare del vento e del permanere di ghiaccio e neve.
Nel 1588 il bretone Jacques de Villamont, gentiluomo della corte del re di Francia Enrico IV, in viaggio verso Roma e la Palestina, scala la vetta.
L'impresa è raccontata nel primo libro di “Les voyages du seigneur de Villamont, chevalier de l’Ordre de Hierusalem, Gentil homme ordinarie de la chambre du Roy”, edito a Parigi nel 1595.
Il testo conosce una notevole fortuna. Domina il panorama di quella che all’epoca è la letteratura di pellegrinaggio francese: circa ventiquattro edizioni nell’arco di cinquant’anni, mai tradotto e mai stampato fuori dal paese.
I brani relativi al Rocciamelone sono riportati anche da Coolidge in “Josias Simler et les origines de l’alpinisme jusq’en 1600”, edito a Grenoble nel 1904 e custodito presso la Biblioteca Reale di Torino.
Valicato il Moncenisio e giunto a Novalesa, “Nouaillaife”, il nobile è costretto alla quarantena: a Torino imperversa la peste. In attesa del lasciapassare per proseguire il viaggio, dietro consiglio degli abitanti, decide di salire a visitare “nostre Dame de Roche-Melon".
Assolda per farsi “conduire e soulager” (condurre e alleviare la fatica) due “Marrons”, a cui ordina di procurarsi viveri per due giorni: gli hanno detto che lì non troverà altro cibo che “fromages frais” (formaggio fresco).
Inizia la salita: s’imbatte in baite, attraversa praterie in cui il bestiame pascola liberamente e beve ad una fresca sorgente che sgorga dalla roccia.
A metà cammino, “tant lassé & fatigué que n’en povuant plus” (così stanco da non poterne più), sosta presso un alpeggio: condivide cibo e bevande con i pastori. Durante la veglia, illuminata dal fuoco di legna di pino, un ragazzo, che l’indomani sarà la sua guida, gli racconta di pernici e fagiani che si possono catturare abbondantemente e di camosci che è possibile cacciare con l’archibugio. Il giovane vende alla comitiva anche le pelli di due capi uccisi qualche tempo prima.
Si addormentano tutti su un duro pavimento: all’alba ripartono e la salita si fa più dura, “de sorte que je voulois retournet en arriere” (tanto che volevo tornare indietro). Solo la curiosità, che sarà soddisfatta, di vedere le cose raccontate dal giovane lo convincono a continuare.
Più in alto deve “attacher aux mains & pieds des graffes de fer” (fissare ganci di ferro a mani e piedi) per salire e superare la paura di cadere in profondi precipizi.
“Ce fut alors que le suport des Marons me servit beaucoup, sans l’esquel je n’eusse voulu si temerairement me hazarder”(Fu allora che mi fu di grande utilità il supporto dei Marrons, senza i quali non avrei voluto rischiare così sconsideratamente).
L'aria si fa più rarefatta, il freddo è insopportabile, il viso perde il colorito e la voglia di “me laisser tomber à terre pour prendre un peu de repos” (cadere a terra per riposare) è incontrollabile. I Marons accorgendosene “me feirent boire un peu de vin, pour me donner courage de continuer nostre chemin” (mi fecero bere un po' di vino, per darmi il coraggio di continuare il cammino).
Nell’ultimo tratto bisogna “monter comme par une échelle” (salire come su una scala), utilizzando i ganci attaccati a mani e piedi: sotto solo infiniti precipizi.
Finalmente, giunto sulla cima, entra nella cappella “pour faire ma priere”. Esce e sofferma lo sguardo sul lago ghiacciato più in basso “qui est vers les païs des Grisons”, probabilmente la catena alpina a nord verso la Svizzera.
“...Tournant la teste d’une autre costé” (girando la testa dall’altra parte) scorge le montagne della Savoia e del Delfinato, ancora imbiancate sebbene sia pieno agosto. Tutte sono molto alte ma in rapporto a quella “ou j’estois, elle resembloyent petites” (in confronto al Rocciamelone sembrano piccole).
Dopo, “venant a jecter les yeux sur les terres du païs du Piedmont & de Lombardie” (guardando le terre del Piemonte e della Lombardia) dimentica la fatica e desidera riprendere il viaggio per visitarle.
Inizia dunque la discesa a valle: il giorno dopo è a Susa e nei giorni seguenti raggiungerà Torino.
Il patavino Giovanni Antonio Magini, astronomo, geografo, cartografo, matematico e astrologo, nel suo Atlante geografico d’Italia, iniziato nel 1594, elabora la carta Stato del Piemonte in cui indica il “Rogio.mellon” e sulla vetta la cappella denominata “Madd. delle Neve”.
L’atlante vuole includere le mappe di ogni regione italiana: nomenclatura esatta e note storiche. Per far fonte ai costi segue la formazione matematica dei figli di Vincenzo I Gonzaga, Duca di Mantova, mecenate delle arti e delle scienze, presso cui ricopre il ruolo di astrologo di corte.
Il Duca, a cui l’opera è dedicata, lo sostiene anche permettendo che gli siano recapitate mappe di vari stati italiani. Anche i governi di Messina e Genova lo appoggiano economicamente.
Una copia del volume, edito postumo nel 1620 a cura del figlio Fabio, si conserva presso la Biblioteca Reale di Torino.