Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
La cava è a monte dell’omonima frazione di Bussoleno, circa 100 metri più in alto, in regione Picheria: ad una quota sui 550 metri.
La particolare stratificazione della pietra rende impossibile l’estrazione di grandi pezzi: le lastre, di dimensioni relativamente limitate e piuttosto sottili, sono adatte a capitelli, basi di colonne o elementi di piccole dimensioni. L’unico esempio discosto da questa regola sono le grandi colonne monolitiche del loggiato seicentesco della Venaria.
Il colore è un bianco freddo che sfuma in toni grigi, la grana fine e omogenea. Si scorgono anche massi di colore verde: l’oficalce caratteristico di questa zona della Valsusa e soprattutto di Falcemagna.
Sulla sinistra, a poco più di 15 metri, si trova l’Orrido.
La documentazione d’archivio è molto ridotta. Ignota la data della scoperta e mancano i documenti riguardanti le concessioni: posizione e utilizzo, nei periodi antecedenti il 1700, sono dunque incerti.
Per conoscerne la storia si deve fare riferimento alle “fabbriche” in cui è usato il marmo.
A Susa sicuramente è impiegato già nell’8 a.C. per rivestire l’arco dedicato a Cesare Augusto e per alcune lapidi marmoree rinvenute nella cittadina e a Torino.
Nel Medioevo se ne serve il cantiere della Cattedrale segusina.
In un documento dell’Archivio Comunale, una causa del 1777 contro due piccapietre, scalpellini, la cava è denominata Del Mulino. Federico Sacco, geologo e naturalista, autore di oltre 630 pubblicazioni, in uno scritto del 1915 sostiene proprio che in prossimità della gola è presente “la casetta del mulino”.
Guido Gentile nel 1990, nel saggio “Io maestro Meo di Francesco Fiorentino...” Documenti per il cantiere del Duomo, scrive che il 1° giugno 1491 un tale Michele Tornia mostra ad otto scalpellini, giunti a Bussoleno, il sito da cui estrarre i marmi per il Duomo torinese: bianchi perché così dettano i canoni rinascimentali toscani.
La ricerca del materiale in realtà è già iniziata a maggio: essi giungono il 18 a Torino, provenienti da Firenze, capeggiati da Bernardino di Antonio, e si recano dapprima a Isasca, nel Marchesato di Saluzzo, poi si spostano a Foresto. Pare che, insieme a loro o poco dopo, arrivi l’Architetto Amedeo del Caprina da Settignano, detto Mastro Meo, il progettista, che lascia la Valle il 2 novembre.
Il marmo serve per alcuni elementi della facciata: i tre portali, le cornici, lo zoccolo del basamento e le paraste, per tutto il resto si usa quello di Chianocco. Il taglio e il trasporto a valle, nei pressi di Bussoleno, si svolgono alacremente. L’impiego di manodopera è locale, i traini sono a mezzo di slittini, la riparazione delle mazze è assicurata da fabbri del posto. Si acquistano in paese ferro e carbone, provviste di mantici e attrezzi per forgiare biette e cunei.
Il Duomo di Torino e particolari dei 3 portali.
Fino al 1600 non si hanno altre notizie: tacciono documenti d’archivio e fonti bibliografiche. Nei cantieri sabaudi, a partire però da questo momento e per i periodi successivi, diventa irrinunciabile per bugnati angolari, cornicioni e fasce marcapiano.
L’ingegnere militare e architetto Ascanio Vitozzi lo raccomanda, nel 1603, per il cartiglio sulla porta della Chiesa del Corpus Domini. Nel 1752 al Capo Mastro Piccapietre Luigi Giudice saranno affidate le “riparazioni necessarie da farsi attorno alla facciata” dell’edificio: s’impegnerà a provvedere e collocare una lapide “nel fondato sopra la Porta, di marmore di Foresto in due pezze al pié di spessezza sufficiente”.
In particolare è l’Architetto di Corte Amedeo di Castellamonte a farne un largo impiego, coadiuvato in quasi tutte le sue fabbriche dal luganese Capo Mastro Piccapietre Carlo Busso che, come risulta dai Parcellari della comunità di Foresto, nel 1668 possiederà la Piccheria e la cava.
Nel 1637 se ne serve, con quelli di Chavrie e Chianocco, per le colonne di Piazza San Carlo. La mancata resistenza della pietra impone però la chiusura degli spazi tra le colonne binate, falsandone l’effetto architettonico.
La Chiesa del Corpus Domini e due colonne di Piazza San Carlo a Torino, il Castello di Rivoli
Nella Capitolazione del 18 Novembre 1659, riguardante la fabbrica di Venaria Reale, il Busso s’ impegna a fornirgli “16 colonne con capitelli alla Michelangelo e basi”, 34 scalini lunghi “un trabucco e di pedata once dieci”, altri 86 gradini e 54 “trabucchi di balaustrata”. La pietra è destinata anche a varie pavimentazioni, sottoporte e zoccoli. Nel 1720 il pavimento della Galleria di Diana sarà realizzato in marmo di Foresto alternato al Verde di Susa: dovrà essere bianco senza vene grigie.
L’Architetto lo utilizza ampiamente anche per il castello di Rivoli: bugnati, fasce marcapiano, modiglioni e modanature del cornicione. Lo stesso fa nel secolo successivo l’ingegnere Michelangelo Garove per alcuni basamenti di colonne, scalinate, ornamenti e balaustrate.
Nel 1716 Filippo Juvarra lo predispone per il rivestimento della facciata. Nel 1793 Carlo Randoni lo vuole per le zoccolature e i davanzali delle finestre: i blocchi sono forniti in parte dal Marmorista Giovanni Pedetti e in parte scolpiti dal Maestro Giuseppe Marsaglia.
Nel 1663, con lo scultore Tommaso Carlone, il Castellamonte progetta una tavola d’iscrizione per la Cittadella di Torino: marmi di Foresto e Venasca. Nel 1664 se ne serve nella pavimentazione del presbiterio della chiesa di San Lorenzo e in altri particolari dell’aula. Nel 1687, infine, lo utilizza per il pavimento dell’infermeria, scalini, basi delle colonne, stipiti delle finestre e arredi fissi “per la comodità” dell’Ospedale Maggiore di S. Giovanni Battista.
Lo Juvarra lo sceglie nel 1720 per le basi delle otto colonne situate “nelli di dentro della chiesa” di Superga”. Nel 1725 per le lastre dei pianerottoli della Scala delle Forbici e per la facciata della Reale Certosa di Collegno.
Nel 1723 Giovanni Tommaso Prunotto, per la Palazzina di Caccia di Stupinigi, progetta camini, davanzali e la balaustra sopra il salone, in marmo di Foresto.
L'interno della chiesa San Lorenzo, la facciata della Certosa di Collegno e lo scalone d’accesso a Palazzo Reale.
Gli Atti civili della Comunità di Foresto del 1777-78 citano 2 cave: la più importante è quella Del Molino. Alcuni paragrafi del documento riguardano il rapporto fra la Comunità e i fittavoli: chi scopre altri giacimenti ha diritto di sfruttarli per tre anni senza alcun canone d’affitto, passati i quali “convenendoli altrimenti con la Comunità ne farà la medesima l’affittamento ai pubblici incanti, od in altro miglior modo”.
Con la scoperta del Bianco Statuario di Pont Canavese, largamente impiegato dai fratelli Collino ad Agliè e a Palazzo Reale, l’uso del marmo della Picheria viene meno fino a scomparire: nel 1814, nell’Elenco delle principali miniere e cave che si coltivano negli Stati di Terraferma di S. M., Foresto è registrato solo per la presenza di una cava di calce.
Nel Quadro statistico di tutte le sostanze minerali nella Provincia di Susa del 1825 si legge di cave di marmo bigio e bianco non in attività: solo nel 1822 si sono “estratti dei gradini del Palazzo Reale”. La qualità è giudicata scadente, adatta a “cose grossolane, come pietra da poggioli, gradini, colonne e simili”.
Goffredo Casalis, nel 1849, nel suo Dizionario geografico, Storico, Statistico, Commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, ne ribadisce la mediocrità e l’inutilizzo nella statuaria: “non ha una bella tinta: è troppo lamelloso e carico di pagliuole lucenti dall’apparenza cristallina”. A riprova, nel 1854, l’Economato Generale Regio Apostolico per sostituire il “poco durevole marmo di Foresto” nella facciata del Duomo torinese richiederà di avvalersi di quello di Malanaggio, in Val Chisone. Il Consiglio Edilizio però, per non deturpare l’edificio, respinge la richiesta: si deve far ricorso a un marmo analogo al preesistente o ad altro “artificialmente ridotto al colore dell’intera facciata”. Si impiega quello della Valle Germanasca.
Sono i Rapporti di Visita dell’Assessorato alle Cave e Torbiere della Regione Piemonte a documentare gli ultimi tempi della Picheria. Il 10 settembre 1897 segnalano una cava privata al Gerpasso e tre di proprietà comunale in regione Ginot e Piccheria: quest’ultima da anni non è coltivata. Nel 1899 si estrarranno temporaneamente grossi blocchi di calcescisti per la costruzione di un argine sulla Dora.
Nel 1921 le tre cave comunali sono: Piccheria, Ginotto e Comba. Il loro materiale è ritenuto adatto alla fabbricazione di calce grossa o utilizzabile come pietrame da costruzione. Solo in qualche zona ristretta il calcare è cristallino, veramente marmo, ma è scadente: va bene per granulati e piastrelle da pavimenti.
La Piccheria è attiva fino al 1939 e poi riattivata nel 1948: il calcare estratto è in parte inviato a una fornace, a poco più di 2 Km, per ottenere calce viva. Il resto è destinato alla produzione di granaglia per pavimentazioni e sepolture cimiteriali.
Le ultime notizie risalgono al 13 Maggio 1959: un avvicendamento nella direzione dei lavori. La cava a tutt'oggi è abbandonata.
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Foto di Franca Nemo e Claudio Rosa.