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La storia di Lidia Poët ci parla dei diritti delle donne (in particolare di quello al lavoro) e della ricerca di una affermazione professionale in un’epoca che collocava le donne accanto al focolare, riservando carriera e potere agli uomini.
Lidia nasce il 26 agosto 1855 aTraverse, una borgata di Perrero in val Germanasca. È l’ultima di sette fratelli: i genitori sono proprietari terrieri valdesi, che da subito orientano i figli agli studi. Adolescente si trasferisce con la famiglia a Pinerolo, dove frequenta la scuola normale (equivalente alle magistrali) e dove risiede il fratello maggiore Giovanni Enrico, titolare di un avviato studio legale.
Una studentessa brillante
Nel 1872, a soli 17 anni, anni rimane orfana di padre ma la madre si impegna per offrire alla figlia le stesse opportunità concesse ai fratelli. Lidia infatti è una studentessa brillante, con una particolare propensione per le materie umanistiche e le lingue. Otto mesi dopo aver conseguito il diploma di maestra riesce ad ottenere anche la maturità classica a Mondovì; parla quattro lingue (italiano, francese, tedesco e inglese) e studia in autonomia il greco e il latino.
A differenza della maggior parte delle coetanee Lidia decide di proseguire gli studi: sfidando i pregiudizi dell’epoca si iscrive alla facoltà di Medicina dell'Università di Torino, diretta da Cesare Lombroso, per poi passare a quella di Giurisprudenza.
A 26 anni, il 17 giugno 1881, si laurea in giurisprudenza con una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Nei due anni seguenti fa pratica legale a Pinerolo presso l'ufficio dell'avvocato e senatore Cesare Bertea, supera in modo brillante l’esame di abilitazione alla professione e chiede quindi l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino.
La richiestai, pur osteggiata da alcuni membri, che per protesta si dimettono dall’ordine, viene messa ai voti ed approvata con otto voti a favore e quattro contrari. Il 9 agosto 1883 Lidia Poët diventa la prima donna in Italia ammessa all’esercizio dell’avvocatura.
Tre mesi dopo però, l'11 novembre 1883, la Corte d’Appello accoglie la richiesta del procuratore generale ed ordina la cancellazione dall’albo. Lidia Poët presenta ricorso alla Corte di Cassazione che, il 18 aprile 1884, conferma la decisione della Corte d'Appello.
Nella sentenza si legge che era inopportuno per le donne partecipare allo “strepitio dei pubblici giudizi”, discutere di argomenti imbarazzanti per “fanciulle oneste” o indossare la toga sui loro abiti “strani e bizzarri”. Il verdetto si rifà al principio della infrimitas sexus: Lidia non potrà esercitare perché donna, categoria cui era preclusa per legge la professione forense.
Intervista a Lidia Poët. Corriere della Sera, 4 dicembre 1883.
Il dibattito si infiamma: la notizia viene ripresa dalla stampa e raggiunge le piazze e i circoli culturali. Le discussioni sono sempre più accese e tra le motivazioni che impedirebbero la professione forense alle donne ne vengono ipotizzate anche alcune di carattere medico: a causa del ciclo mestruale la donna una volta al mese non avrebbe l'obiettività e la serenità necessarie per affiancare adeguatamente i propri assistiti.
Altri impedimenti sarebbero di carattere giuridico: secondo quanto stabilito nel Codice della famiglia del 1865 le donne non possono essere ammesse ai pubblici uffici, né godere di autonomia economica (appannaggio degli uomini di casa). Lo stesso vale per la possibilità di spostarsi in autonomia e frequentare luoghi normalmente preclusi al genere femminile. Ciò avrebbe condizionato fortemente una donna avvocato, pregiudicando la sua affidabilità ed efficacia professionale.
La battaglia per i diritti di minori, emarginati e donne
Lidia Poët non può esercitare la sua professione ma non si ferma: pur non avendo la facoltà di partecipare alle udienze in tribunale né di firmare atti processuali collabora con lo studio legale del fratello Giovanni Enrico.
In quegli anni diviene attiva nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne, sostenendo anche la causa del suffragio femminile. Per trent’anni è nella segreteria dei Congressi Penitenziari Internazionali, dove promuove l’istituzione dei tribunali dei minori e la riabilitazione dei detenuti attraverso l’educazione e il lavoro. Partecipa nel 1885 al congresso di Roma e cinque anni dopo a quello di San Pietroburgo; il governo francese la nomina Officier d'Académie per i lavori svolti al congresso di Parigi del 1895.
Lidia si adopera inoltre per l’emancipazione femminile aderendo al Consiglio Nazionale delle Donne Italiane fin dalla sua fondazione, nel 1903. In quest'ambito viene incaricata di dirigere i lavori della sezione giuridica nei primi congressi del 1908 e 1914, dove si dibatte dell’assistenza ai minori abbandonati e della riduzione del loro orario di lavoro, che si richiede non superi le 8 ore giornaliere per i ragazzi al di sotto dei 16 anni e per le ragazze al di sotto dei 21. In questi congressi vengono discusse leggi che saranno approvate solo molti decenni dopo, come il divorzio (che diventerà legge nel 1970) e l’equiparazione tra figli naturali e legittimi (realizzata solo nel 2012).
La Prima guerra mondiale scuote l’Italia e Lidia si offre come volontaria per la Croce Rossa, impegno che viene premiato con una medaglia. Il conflitto porta gli uomini al fronte, lasciando alle donne il compito di badare agli affari e alla famiglia. Un cambiamento che porta consistenti modifiche legislative: il 17 luglio 1919 la Legge Sacchi autorizza le donne a lavorare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari, anche senza l’autorizzazione del marito.
Le donne raggiungono così una prima emancipazione, anche se ancora non possono ottenere posti di rilievo nella società. Ciò permette però a Lidia di vincere la propria battaglia e di diventare, a 65 anni, membro dell'Ordine degli avvocati di Torino, prima donna in Italia ad essere ammessa all’Albo.
Nel 1922 Lidia diventa presidente del Comitato pro voto donne di Torino. Dopo una vita spesa al servizio degli altri, senza sposarsi né avere figli, muore a 94 anni il 25 febbraio 1949 a Diano Marina, dove aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita.
Viene sepolta nel cimitero di San Martino, a Perrero in Val Germanasca; la sua tomba la commemora come “prima avvocatessa d’Italia” e ricorda l’esempio che ha saputo portare alle donne del suo tempo.
Una controversa serie televisiva
La sua figura è tornata d’attualità grazie alla serie televisiva proposta da Netflix: “La legge di Lidia Poët”, con protagonista Matilda De Angelis e la regia di Matteo Rovere. La serie si ispira piuttosto liberamente alla figura della Poët: non si tratta della ricostruzione della sua vita ma di racconti originali che utilizzano un personaggio a lei ispirato, una donna emancipata e laureata in legge ma che non può esercitare l'avvocatura e che per questo motivo è costretta a fare da assistente al fratello.
Molte sono però le incongruenze storiche, segnalate anche dai discendenti dell’avvocatessa che, per usare un eufemismo, non hanno molto apprezzato la serie: la protagonista parla, si muove e pensa come farebbe una giovane donna di oggi, e questo fa prendere poco sul serio tutto il resto del racconto e fa sì che e i personaggi, nonostante siano messi in scena da attori di talento, non siano mai credibili fino in fondo. La stessa de Angelis riconosce gli anacronismi: "Le abbiamo fatto fare cose impensabili per una donna del tempo, ma la sua battaglia mi ha ispirata".
C’è inoltre chi sostiene che il riconoscimento di “prima avvocatessa d'Italia” non spetti a Lidia Poët ma a Giustina Rocca che visse a Trani nella seconda metà del 1400 ed ispirò William Shakespeare, che per "Il mercante di Venezia" basò su di lei il personaggio di Porzia di Belmonte.
Nel 2021 il Consiglio dell'Ordine degli avvocati Torino ha dedicato a Lidia Poët un cippo commemorativo nei giardini del Palazzo di Giustizia; a lei sono intitolate una scuola a Pinerolo e una a Frossasco.