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Il 1630 per Giaveno fu un anno orribile, che aveva portato l’occupazione francese e la peste. Se col nuovo anno il contagio andava scemando la presenza di truppe straniere continuava ad essere un peso economico e sociale tremendo, su una comunità decimata dal morbo e stremata dalla carestia.
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La prepotenza dei soldati e la continua richiesta di denaro esplosero nella ribellione del 13 aprile 1631, all’ombra della Torre Garola in borgata Buffa di Giaveno. Un gruppo di borghigiani assalì dei soldati francesi che rientravano a Coazze e li mise in fuga uccidendone sei.
Lo storico Gaudenzio Claretta nella sua “Cronistoria del Municipio di Giaveno” del 1875 nobilita il fatto paragonandolo ai “Vespri Siciliani” che nel 1282 dettero origine alla cacciata degli Angioini francesi dalla Sicilia.
Motivazioni e contorni dell’aggressione non sono chiari, ma il Claretta ne dà un resoconto esemplare, molto equilibrato. Da un lato cercando di motivare le cause dell’aggressione e dall’altro sottolineandone la brutalità, scandalizzandosi infine nel vedere che gli assassini se la cavarono pagando in denaro.
Leggendo il resoconto se ne deduce che i francesi minacciando di bruciare la borgata Buffa, dove era avvenuta l’aggressione, puntavano più a ricavare denaro dall’episodio che a una effettiva giustizia e punizione dei colpevoli.
La Torre Garola era “un osservatorio militare, dalla sua specola a tre luci, parte di quel sistema periferico di avvistamento e di difesa, che, dal secolo XVI in poi, con le strutture del fortino a quota 1671 sulla strada del colle della Rossa, l’istituzione di presidi mobili al colle dell’Aquila e al Prato dell’Abate e il potenziamento delle quattro porte del borgo, era stato creato dai reggitori della Comunitas a tutela dell’agglomerato urbano dalle incursioni di truppe mercenarie e straniere, calamità ricorrente con incalzante frequenza in quel tormentato periodo storico“.
Da Giaveno nei suoi monumenti nella sua arte nella leggenda e nei suoi ricordi, Alfredo Gerardi, foto Edmondo De Amici, Libreria Carnisio, 1977, opera citata. Cartolina della collezione di Carlo Giacone.
L’episodio è stato riportato anche da Pio Rolla (nella sua “Guida di Giaveno e dintorni”) e da Alfredo Gerardi in “Giaveno nei suoi monumenti, nella sua arte, nella leggenda e nei suoi ricordi“, del 1977, che così lo racconta:
Il maniero turrito della nobile famiglia Calcagni o Calcagno, partecipe attiva della vita pubblica giavenese sin dal secolo XIII con magistrati, giuristi, castellani, sindaci e religiosi di chiare e specchiate qualità vedeva scoppiare ai suoi piedi l’insurrezione del 13 aprile 1631 contro le truppe francesi del colonnello Magala, di stanza a Coazze.
Verso l’imbrunire di quella giornata primaverile alcuni soldati in libera uscita stavano rientrando al reggimento, in discreta euforia per qualche quartuccio tracannato in una bettola della frazione giavenese. Sulla sommità della torre qualcuno li stava spiando, in contatto con alcuni popolani armati di picche e di asce appostati nei dintorni.
Ad un segnale luminoso della vedetta il gruppo usciva dai nascondigli e si gettava addosso ai militari stranieri, infierendo selvaggiamente sui malcapitati colti alla sprovvista. L’odio e il malcontento del popolo a lungo repressi esplodevano in questa sanguinosa aggressione: sei morti restavano sul terreno, molti altri riportavano ferite e venivano derubati di denari ed indumenti.
Il colonnello Magala, comandante del reparto, informato dell’accaduto alcune ore dopo, inviava un plotone sul posto, intervenendo personalmente per punire l’eccidio e la grassazione. Convinto della complicità degli abitanti, minacciava di incendiare il borgo come rappresaglia; ma due consiglieri municipali scesi con lui a valle da Coazze, Benedetto Picco e Giovanni Rege, lo dissuadevano, esortandolo a proseguire l’inchiesta.
Nell’incontro con i delegati di Giaveno l’ufficiale pretendeva la consegna di uno degli autori dell’imboscata, indicato da una donna arrestata dai francesi, ed insisteva, in caso di diniego, nella sua decisione di dare alle fiamme l’abitato del centro urbano. I sindaci, appoggiati dai buoni uffici di alcuni padri cappuccini capitati sul posto, peroravano abilmente la causa e calmavano le ire del colonnello con l’offerta di una somma di denaro come risarcimento del danno morale e materiale: 225 doppie a carico del Comune, e, per tacita intesa, accollate ai rei individuati su denunzia dei cittadini.
Gaudenzio Claretta, scandalizzato dalla mancata giustizia, concludeva così il racconto dell’episodio: “Ed in modo cosi benigno terminava una vertenza che avrebbe senza fallo meritato maggiore repressione nell’interesse della giustizia; locchè fa presumere che grande dovesse essere la colpa imputabile a quei soldati, i quali eransi attirato contro tanto eccidio, e che forse l’odio manifestatosi da pochi assassini fosse la espressione dell’avversione della gran maggioranza della popolazione”.
Testo di Guido Ostorero. Continua al leggere sul sito "Scuola Guido":
“Bruciate la Buffa!” (i “Vespri della Turinera” del 13 aprile 1631)