Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Non avete mai provato, avendo un piatto di pasta e fagioli davanti, a versarvi dentro un mezzo bicchiere di vino rosso corposo? Beh, lo so, non è un gesto molto fine, e non sarebbe apprezzato in una cena elegante. Tuttavia, ve lo consiglio, perché i gusti si sposano magnificamente, e ci fanno capire che il vino, oltre che essere una bevanda è un alimento.
D’altronde, un tempo, questo abbinamento tra cibo e vino era consueto nelle campagne. Nelle osterie delle città, poi nessuno si sarebbe stupito nel vedere gli avventori compierlo. Eseguire questa aggiunta di vino alla zuppa o alla minestra, in Piemonte viene chiamato “Fé la surbìa”, ed è una cosa che è più facile vedere fare agli anziani. Stretti parenti alcolici della “Surbìa”, erano le “Raviòle al vìn”, ossìa gli agnolotti caldi, appena scolati dopo la cottura, serviti in un piatto fondo, versando loro sopra del buon vino rosso, a temperatura ambiente.
Nelle zone in cui, come nel Vercellese o nella Lomellina, il riso era l’alimento più diffuso, lo stesso trattamento lo riceveva questo cereale: “Al ris, al nassa int l'aqua e 'l mora int al vin”, il riso nasce nell’acqua e muore nel vino, diceva un proverbio della Lomellina.
Se qualcuno ritenesse oggi la “Surbìa” un retaggio del passato, probabilmente resterebbe sorpreso nello scoprire essa è una pratica ben conosciuta anche in Francia, dove viene denominata "Faire chabrol" (…) e in Catalogna, dove lo si definisce "Fer lo xarbòt” o “Fer lo cabròt”.
Lo “Chabrol”, è una tradizione francese che si ritrova anche nella pagine della letteratura: l’esempio più illustre, per esempio, è nel romanzo “Jack”, di Alphonse Daudet, una storia ambientata nella Parigi del 1857 di un fanciullo, buono e gentile, che ha la disgrazia di essere figlio di una mondana, e di vivere tristi vicende simili a quelle dei personaggi dickensiani.
In un passo di questo libro il protagonista, Jack, entra con due compagni in un “cabaret”, dove si siedono di fronte a un'enorme zuppa di cipolle, nella quale fanno lo “chabrol” (...).
Daudet usa il termine “cabaret” ma, ai suoi tempi, il “cabaret” era semplicemente un posto molto alla buona, simile un po’ ad una taverna, dove la gente poteva bere e, volendo, anche mangiare un piatto. Ma l’abitudine dello “Chabrol” (aggiungendo il vino alla zuppa nella gamella fumante), ricorre anche nei molti racconti che parlano della piccola vita quotidiana dei francesi.
Secondo lo scrittore Frédéric Mistral, i termini “Chabrol”, "Chabroù", “Xarbòt” ecc. troverebbero la loro radice nel termine occitano “Cabro”, ossia “capra”. L’attinenza con la capra risiederebbe nell’atto finale dello “chabrol”: il commensale porta il piatto alla bocca, e ne sorbisce il liquido come se fosse una scodella. Fare “Chabrol“ o “Chabrot“, sarebbe dunque “bere come berrebbe una capra”.
La spiegazione di Mistral, legata alla maniera di bere, ci illustra bene l’origine del termine piemontese “Surbìa”: come leggiamo nel “Dizionario Piemontese-Italiano, Latino e Francese, compilato dal Sac. Casimiro Zalli di Chieri”, il verbo “Surbì – Sorbi - Seurbè”, significa proprio «Trarre a sé i liquidi con la bocca, ritraendo il fiato… (…). Surbì n’euv, bere un uovo…», e corrisponde all’italiano “Sorbire”.
(Per completezza di informazione, voglio aggiungere che questa usanza con il vino era diffusa, oltre che nel Piemonte, anche nelle campagne di tutto il Nord Italia. Mentre nel Mantovano, veniva chiamata "Bevr in vin", anche in Emilia e nel Cremonese, veniva chiamata "Sorbìr").
Ma passiamo all’ultimo problema: quando aggiungere il vino? All’inizio, o alla fine?
Alcuni lo preferivano alla fine (in particolare, «le Chabrot», doveva essere un «mélange de vin et des dernières cuillerés de soupe»). Ciò nonostante, sembra che la vista del piatto divenuto di color vinaccia, disgustasse alcune persone, visto che il “Chabrol“ e la “Surbìa” venivano definiti dai loro detrattori, rispettivamente in Borgogna e in Piemonte, “bouillon d’ivrogne” e “bròd dij ciôch” (brodo degli ubriachi).
Un esempio di quella che gli estimatori definirebbero "Soupe au vin", mentre i detrattori, storcendo il naso, “Bouillon d’Ivrogne” (in Borgogna) e “Bròd dij Ciôch“ (in Piemonte)
Dunque, se non vi siete lasciati impressionare da tutto ciò, e avete seguito il mio consiglio di versare nel piatto di pasta e fagioli un mezzo bicchiere di vino rosso corposo, gustatevelo sapendo tutto ciò che c’è dietro.
Se invece non lo avete seguito sappiate che, qualche anno fa, i giornali d’Oltralpe hanno riportato la notizia che a Parigi, con la scusa di “récupérer une tradition bien française dans nos assiettes”, il proprietario del prestigioso (e costoso) “Le Bistrot du Sommelier”, Philippe Faure-Brac, (riconosciuto nel 1992 come “Meilleur Sommelier du Monde”), ha invitato una sera i suoi clienti, dopo aver loro servito una “Velouté de Champignon”, a "Faire chabrol", ossia a versare all’interno del piatto qualche cucchiaio di “Châteaux d'Yquem” del 1998.
Il “Châteaux d'Yquem” è un vino di lusso, un Sauternes 1er Cru Supérieur, le cui preziosissime bottiglie (da un terzo di litro!), hanno valutazioni intorno ai 500 Euro. Dunque, se non osate fare questo gesto perché lo trovate, come direbbero i Francesi, “vieilli et campagnard”, ricordatevi di Monsieur Faure-Brac.
Non bisogna tuttavia tacere del fatto che, pur avendo tutti i clienti seguito il consiglio del “Meilleur Sommelier du Monde“, nessuno di loro ha poi portato il piatto alla bocca, ma hanno tutti, molto elegantemente, utilizzato il cucchiaio. Cioè: nessuno di loro ha bevuto dal piatto col risucchio, ovvero, nessuno di loro ha effettivamente fatto una vera “surbìa”.