Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
La tradizione delle "cave" e dei "picapere" in Valle di Susa è molto antica, e non soltanto per l'utilizzo destinato alle costruzioni locali: sono molti infatti gli edifici torinesi che hanno utilizzato pietre e marmi che provenivano dalle cave del nostro territorio.
L'attività estrattiva in valle era già piuttosto fiorente ancor prima che, nel 1861, Torino divenisse la Capitale del Regno d'Italia. A potenziarla ulteriormente furono i Savoia, che per esprimere il loro prestigio chiamarono a sè due tra i migliori architetti del tempo: Guarino Guarini, che giunse a Torino nel 1666, e Filippo Juvarra, che vi approdò nell'autunno del 1714.
Entrambi, per le loro realizzazioni architettoniche, scelsero di approvigionarsi anche dalle cave di marmo, granito e gneiss valligiane.
La zona di Falcemagna, tra Foresto e Bussoleno, era nota per il suo marmo durissimo, contraddistinto da elementi serpentinosi di colore verde più o meno scuro, il cosiddetto "verde della Fugera". I blocchi di marmo venivano in seguito lavorati e sbozzati presso la segheria che a metà del 1700 si insediò sul rio della Colombera, nei pressi delle Grange di Bussoleno.
L'attività della cava proseguì fino al 1792, tre anni dopo la chiusura della segheria. Venne poi riaperta nel 1835, grazie all'intervento del re Carlo Alberto che la fece rimettere in funzione per impiegarne i marmi all'interno del Palazzo Reale di Torino, contribuendo alla sistemazione della strada di accesso che, priva di manutenzione, nel frattempo era franata.
Torino, Palazzo Reale.
Altrettanto importanti furono le cave di Foresto e Chianocco, che vennnero riaperte nel 1718, dopo oltre 70 anni di inattività, su interessamento dello stesso Juvarra che intendeva utilizzarne il marmo.
A Condove, Vaie, Villar Focchiardo, Borgone, San Giorio, Bussoleno, Mattie veniva estratto lo gneiss, una roccia metamorifica scistosa. A Villar Focchiardo, inoltre, si cavava roccia quarzitica, che veniva utilizzata per produrre mattoni refrattari.
I "picapere"
Il lavoro dello scalpellino, in piemontese "picapere", era un mestiere duro, che si apprendeva in giovane età. Un'occupazione che poteva minare il fisico a causa della silicosi, malattia provocata dall'accumulo nei polmoni delle polveri respirate durante la frantumazione delle pietre.
Dopo lo sbancamento dai fronti di cava, la lavorazione del materiale estratto avveniva il più possibile nei pressi dei cantieri di estrazione. Erano due le tipologie di lavoratori delle cave: i tagliatori, che erano addetti alla rimozione dei blocchi dalla parete mediante l'impiego di mine e i fatturanti, che si occupavano di lavorarli trasformandoli nella tipologia di manufatto richiesta.
I tagliatori praticavano nella roccia dei fori da mina, nei quali avrebbero inserito l'esplosivo per staccare il blocco dalla parete. Per bucare la roccia inserivano al suo interno una pesante asta d'acciaio dalla punta acuminata, nota come barramina.
In genere, questo lavoro impegnativo veniva svolto da una squadra di tre uomini: mentre uno sorreggeva la barramina, gli altri due gli assestavano alternativamente decisi colpi di mazza. Un'opera completamente manuale, che richiedeva un grande coordinamento.
La barramina doveva essere inserita ad una profondità variabile; si andava dai 4/5 metri fino a superare talvolta i 7. Per ultimare il lavoro servivano quindi diversi giorni, considerando che l'avanzamento della barramina sotto i colpi dei picapere era di circa un metro quotidiano.
Villar Focchiardo, Cava della Forgia, anni '50. La cava era gestita dalla ditta Versino, in attività ancora oggi.
Ai tagliatori non era richiesta soltanto forza, ma anche un accurato studio della materia perchè, osservando la venatura della pietra, dovevano essere in grado di capire come operare per un migliore distacco. Una volta introdotta nei fori la quantità di polvere esplosiva necessaria, stabilita in base alla profondità dei fori stessi, si provvedeva a pressarla e sigillarla, dopo di che veniva accesa con una miccia.
La prima esplosione serviva ad imprimere l'orientamento del distaccamento, che doveva avvenire verso il basso. Ad essa seguivano ulteriori cariche, con quantitativi di esplosivo sempre maggiori, fino a che dalla montagna si staccavano i massi da lavorare, in seguito trasferiti mediante pali, tavole di legno o argani meccanici.
Toccava quindi ai fatturanti procedere alle lavorazioni successive per la trasformazione in cordoli, colonne, capitelli, pilastri, soglie, davanzali e molte altre tipologie di manufatti.
Si trattava di un lavoro decisamente pesante e pericoloso, che nel corso del 1900 gli scalpellini progressivamente abbandonarono preferendovi gli impieghi offerti dallo sviluppo industriale.
La manodopera locale fu quindi rimpiazzata da nuclei di scalpellini provenienti da altre regioni italiane, fino a che l'attività di cava venne progressivamente abbandonata quasi ovunque. Resiste oggi una solida tradizione di lavorazione della pietra, ma la materia prima proviene quasi totalmente da altri territori, ed in alcuni casi anche dalla Cina.
Testimonianze torinesi di pietra valsusina
Fu in particolare l'architetto Filippo Juvarra ad impiegare marmi valsusini per adornare esterni ed interni di regge e palazzi di prestigio.
La facciata monumentale di Palazzo Madama, che svetta su piazza Castello, ha uno zoccolo in pietra di Vayes e la parte restante in pietra di Chianocco.
Torino, Palazzo Madama.
Il marmo bardiglio di Foresto è stato usato per realizzare gradini e lastre dei pianerottoli della Scala delle Forbici, che collega il primo e secondo piano del Palazzo Reale, ornamenti del Salone degli Svizzeri, le colonne delle gallerie del cortile interno e la pavimentazione dell'infermeria dell'Ospedale San Giovanni, ora sede del Museo di Scienze Naturali.
Dello stesso materiale sono anche le basi delle otto colonne interne alla basilica di Superga, balaustre, camini e davanzali della palazzina di Caccia di Stupinigi, sottoporte e zoccoli della reggia di Venaria.
Parti in pietra del ponte su Po dedicato a Re Umberto I provengono dalle cave di San Basilio di Bussoleno, stessa origine di alcune colonne dei portici di Via Roma e dalle scalinate e rivestimenti del Monte dei Cappuccini.
La pietra verde della Fugera fa abbellisce la galleria Beaumont di Palazzo Reale e gli altari delle chiese di San Lorenzo, San Filippo, dell'Immacolata Concezione e della Santissima Trinità.
Sono invece in marmo di Chianocco le colonne del loggiato di Villa della Regina e i gradini di due scale del Castello di Moncalieri, nonchè i due delfini della fontana di Ercole del giardino della Reggia di Venaria. Alla Reggia fu impiegato anche il verde di Susa, che contraddistingue inoltre le dodici colonne della Cappella dell'Ospedale San Giovanni.
Torino, Villa della Regina.
Fu il Guarini, invece, a scegliere il marmo di Chianocco per i pilastri e gli zoccoli della cappella della Sindone e la realizzazione dei 16 piedistalli delle colonne dei portali di Palazzo Carignano, destinato poi ad essere sede del primo Parlamento subalpino e in seguito del primo Parlamento italiano.
Secoli di storia sono passati attraverso i blocchi di pietra valsusina; ora, nuovi lavori di restauro stanno interessando Palazzo Madama. Un primo lotto di interventi del valore di 2.4 milioni, finanziato dalla Fondazione Crt, contribuirà al rifacimento del maquillage del mastio quadrangolare di Piazza Castello, condotto sotto lo sguardo attento del Centro di Restauro della Venaria Reale.
A lavori ultimati sarà consentito accedere al tetto con ascensore panoramico, godendo di una vista spettacolare da un'altezza di 26 metri. L'intervento prevede il recupero dei materiali originali (tra cui, come ricordato, la pietra di Vayes e di Chianocco) e l'impiego di elementi più moderni quali fibre di carbonio, resina ed acciaio inox, abbinando il fascino estetico del presente alla solidità granitica di pietre collocate da secoli.